I giovani e l’omosessualità tra povertà emotiva e deiezione del linguaggio

Francesco Ricci

02/01/2017

Finché si resta all’interno di un’aula scolastica di un prestigioso liceo, anche parlare di omosessualità equivale a parlare di politica, di amore, di paesaggio urbano, di musica, di legami comunitari, di nuove tecnologie. A cambiare è l’argomento, ma immutata si conserva nei ragazzi la disponibilità a esprimere con garbo il loro giudizio, a raccontare con sincerità episodi della loro vita, a recuperare con la memoria i titoli di romanzi e di film, che sostengano e confermino quanto affermato davanti ai compagni, davanti all’insegnante. A chi conosce, infatti, la civiltà greca e ha un po’ di confidenza con le pitture vascolari e col genere epigrammatico (penso, in particolare, al dodicesimo libro dell’”Antologia Palatina”), con la filosofia e con gli scritti storici, appare naturale collocare sullo stesso piano l’amore omosessuale e l’amore eterosessuale, tanto più che, come osservato da Kenneth Dover, non esisteva neppure a livello linguistico una netta distinzione.  Di conseguenza la lettura dei versi perfetti di Asclepiade di Samo, che descrivono lo struggimento della fanciulla Nicarete per il bel Cleofonte, provocano negli studenti la stessa reazione che suscita il celebre epigramma di Callimaco, dove a essere celebrata è la nuova passione dello spergiuro Callignoto per un ragazzo. Se differenza c’è, essa concerne esclusivamente l’ambito del giudizio estetico.

Basta, però, varcare il portone di quell’edificio scolastico, attraversare strade, attraversare piazze, confondersi in mezzo alla folla, ed ecco che l’omosessuale diventa la checca, il frocio, il pederasta, il finocchio. Nessuna poesia, nessuna bellezza. Al loro posto o l’ironia acre o l’offesa triviale. D’altra parte, l’omosessuale è sempre stato percepito come il diverso per eccellenza e diverso, come ci ricorda l’etimologia latina della parola, è “colui che devia”, che “volge in direzione opposta”. E, così facendo, mostra a tutti di preferire alla norma l’infrazione, alla regola l’eresia. Nessuna sorpresa, perciò, se la Chiesa ha pronunciato nei secoli una condanna inappellabile contro il peccato di sodomia (che si è fatta più dura a partire dal XV secolo), nessuna sorpresa se solamente nel 1974 il manuale di psichiatria americana (il DSM) ha visto derubricata l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali. Ma c’è di più. Molte volte in bocca al giovane parole come “checca” o “frocio” vengono a costituire esempi di quella che in linguistica è detta desemantizzazione, vale a dire l’attenuarsi del legame che unisce un certo termine al suo referente originario. Di conseguenza, a essere apostrofato come “ricchione” o come “finocchio” può essere anche colui che sappiamo bene essere eterosessuale, a tal punto la parola è ormai sentita appartenere all’ambito del turpiloquio, dell’offesa, dell’ingiuria.

Tuttavia, la violenza verbale nei confronti dell’omosessuale non è semplicemente figlia della deiezione (in tedesco Verfallenheit) del linguaggio, della riduzione del linguaggio, che comporta che una parola poco alla volta diventi, come scriveva Arthur Schnitzler nel suo bellissimo “Fuga nelle tenebre”, “più vuota e insignificante”, si riduca a “una casuale successione di lettere dell’alfabeto messe arbitrariamente una accanto all’altro”. Se anche fosse così, sarebbe comunque già questa un’ignoranza colpevole. La questione, però, è più complessa. Più che la povertà linguistica, che comporta lo smarrimento del significato autentico delle parole, alla base del sospetto e del dileggio, che ancora circondano la condizione omosessuale, c’è un altro tipo di povertà, la povertà emotiva. Cosa significa povertà emotiva? Significa la perdita o il forte indebolirsi, ha osservato Umberto Galimberti ne “L’ospite inquietante”, di “risonanze emozionali di fronte ai fatti a cui si assiste o ai gesti che si compiono”. D’altra parte, la famiglia, la scuola, la società curano l’educazione del corpo, curano l’educazione della mente, ma trascurano quella dell’anima. La conseguenza è che nei giovani il dolore e la vergogna, l’ansia e la paura, la nostalgia e il timore di vivere –  la parte umbratile dell’arcipelago delle emozioni –  appaiono quasi del tutto svuotati di senso. E dal momento che sono proprio gli stati d’animo (i sentimenti) a consentire di cogliere cosa vi sia nel cuore di un’altra persona, colui che non conosce più le emozioni (le proprie, quelle altrui) finisce inevitabilmente con l’ignorare che basta poco, un gesto, una parola, a ferire in profondità un ragazzo o una ragazza, specie se questi, al pari di tutti coloro che vengono liquidati in modo sbrigativo come “diversi”, recano in sé lo stimma della fragilità accompagnato da un vissuto di colpevolezza.

La verità è che l’aula e la piazza, la scuola e la strada restano separate, anche se a dividerle sono pochi metri. E così la facilità, quasi la naturalezza, che il giovane avverte nel porre sullo stesso piano l’epigramma di Asclepiade e l’epigramma di Callimaco, lascia il posto al riemergere di vecchi e nuovi pregiudizi. L’omosessuale torna a essere la checca, il frocio, il pederasta, il finocchio, il “peccatore” o il “malato”, costretto a nascondersi, a fingere, spesso a violentarsi pur di compiacere agli altri, finendo col ritrovarsi inevitabilmente troppo lontano da sé per potersi accettare con serenità e non avere una vita strozzata.
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Francesco Ricci

Francesco Ricci

(Firenze 1965) è docente di letteratura italiana e latina presso il liceo classico “E.S. Piccolomini”di Siena, città dove risiede. È autore di numerosi saggi di critica letteraria, dedicati in particolare al Quattrocento (latino e volgare) e al Novecento, tra i quali ricordiamo: Il Nulla e la Luce. Profili letterari di poeti italiani del Novecento (Siena, Cantagalli 2002), Alle origini della letteratura sulle corti: il De curialium miseriis di Enea Silvio Piccolomini (Siena, Accademia Senese degli Intronati 2006), Amori novecenteschi. Saggi su Cardarelli, Sbarbaro, Pavese, Bertolucci (Civitella in Val di Chiana, Zona 2011), Anime nude. Finzioni e interpretazioni intorno a 10 poeti del Novecento, scritto con lo psicologo Silvio Ciappi (Firenze, Mauro Pagliai 2011), Un inverno in versi (Siena, Becarelli, 2013), Da ogni dove e in nessun luogo (Siena, Becarelli, 2014), Occhi belli di luce (Siena, Nuova Immagine Editrice, 2014), Tre donne. Anna Achmatova,...

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