Ormai non c’è riflessione sugli equilibri geopolitici del mondo che possa prescindere dalla Cina. La Cina potenza economica e militare, sbalorditiva realtà demografica, strano mix di millenario confucianesimo e di autoritarismo comunista, di sfavillanti architetture, fasti tecnologici, abissali disuguaglianze tra ricchi e poveri. Un coacervo di contraddizioni, opacità, soprusi. Cina come un grande ossimoro bene sintetizzato nella ‘democratura’ di Xi Jinping (proprio in questi giorni, a Hong Kong, le persone sono scese nuovamente in piazza contro la cosiddetta ‘legge sulla sicurezza nazionale’, ennesima minaccia alle libertà civili). Peraltro, di ciò che accada veramente in Cina sappiamo sempre poco (il caso del Covid-19 ne è stato l’ultimo clamoroso esempio). Perciò è sempre interessante leggere libri che testimonino la vita reale dei cinesi e che aiutino a comprendere la storia recente di questo grande paese. Contribuisce a farlo, per la sua parte, anche il libro “Sotto cieli rossi” di Karoline Kan (Bollati Boringhieri, per la traduzione di Benedetta Gallo). Karoline Kan vive a Pechino, è una giornalista che in anni recenti ha collaborato con il “New York Times” scrivendo articoli sulla politica cinese e sulla vita dei millennial in Cina e che oggi lavora per il “China Dialogue”. È una trentenne, è dunque anch’essa una millennial nata in un piccolo paese vicino Tianjin tre mesi prima del massacro di piazza Tienanmen del 4 giugno 1989. Il libro è il diario della sua storia, della sua famiglia, della sua generazione cresciuta insieme a tutte le contraddizioni prima richiamate. Basti dire che lei è una secondogenita, nata in trasgressione alla politica del figlio unico in vigore fino al 2015 (lo slogan era: “Meno figli, più sani: il segreto di una vita felice”). Karoline è al mondo per la caparbietà di sua madre, che quella gravidanza ha cercato e difeso ricorrendo a molteplici espedienti pur di sottrarsi agli aborti imposti dal regime. Far nascere un secondo figlio, peraltro femmina, comportava il rischio di mettere al mondo una ‘invisibile’: vivente, ma mai nata agli effetti anagrafici. È stato calcolato che in quegli anni siano scomparse tra i trenta e i sessanta milioni di bambine. Karoline Kan ama profondamente il proprio paese, la cultura e la ricchezza umana che vi è deposta. Dice, infatti, di non voler essere ascritta tra i dissidenti, ma tra coloro che cercano di capire le trasformazioni radicali avvenute in Cina e, quindi, anche le incoerenze insite in quei cambiamenti. Ciò non significa – come fa nel suo libro – ignorarle o metterle sotto silenzio. Racconta, ad esempio, le atrocità (arresti e torture) messe in atto contro i praticanti del Falun Gong, innocua disciplina spirituale; oppure le indagini sugli studenti liceali condotte dalla polizia per scoprire eventuali loro complicità con movimenti politici contrari al Partito Comunista. Certo è che Karoline qualche rischio lo corre: il suo libro, scritto in inglese, non circola in Cina (giusto qualche copia per chi legge l’inglese e può acquistarlo online). Certamente non passerebbero la censura le sue considerazioni sul ruolo e i diritti delle donne o sulla corruzione che imperversa tra i politici e gli organi statali. Le ragioni di questo diario – come lei stessa dichiara – nascono dal desiderio di raccontare emozioni, scelte e compromessi, il coraggio e la speranza della sua generazione. E, così facendo, avere momenti di condivisione con i coetanei di tutto il mondo.
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Chaoyang, 1988
Nell’estate del 1988, tra i salici che crescevano lungo la strada principale per il villaggio, le cicale non smisero mai di cantare. Un giorno Shumin, mia madre, tornò prima del solito dalla risaia di famiglia in cui lavorava. Si mise a letto, divorata dall’ansia; sapeva che la collera di suo suocero per quel rientro anticipato non sarebbe stata nulla in confronto alla sua reazione una volta scoperto il segreto che per più di un mese gli aveva taciuto: aspettava un altro figlio, il secondo. In trentadue anni di vita, quello era il solo crimine che avesse commesso.
Sdraiata a riflettere sul da farsi, intravedeva dalla finestra gli striscioni in rossi caratteri cubitali attaccati sui muri candidi del vicino:
MENO FIGLI, PIÙ SANI: IL SEGRETO DI UNA VITA FELICE
Quei cartelli ridicoli erano frutto della politica cinese del figlio unico. Ma mia madre credeva poco alla loro promessa: lei aveva un solo bambino, la sua famiglia lavorava sodo, eppure di felicità e di ricchezza non c’era traccia.
La vita di mamma e di Chengtai, il mio baba, era tipicamente cinese. Abitavano dai genitori di lui insieme ai suoi tre fratelli non ancora sposati. Negli anni Ottanta molte giovani coppie vivevano con i parenti. Anche casa loro era tipica: un trilocale di mattoni rossi affacciato a sud, con un piccolo capanno nel cortile. All’epoca il cotto era una novità, andava di moda perché era segno di ricchezza. Le case, prima, si costruivano con mattoni d’argilla fatti a mano – un miscuglio di fango e paglia lasciato ad asciugare al sole – più economici ma assai meno resistenti. Mia nonna, o Nainai, la mamma di baba, aveva circondato il cortile di canne di bambù per separarlo dall’orto. All’ombra dei due salici scorrazzavano polli e conigli che, insieme alle uova, Nainai vendeva una volta al mese al mercato dei contadini.
Questa era la loro vita. Una vita... qualunque.
La mamma non aveva detto a nessuno della gravidanza, tranne che a baba. Non poteva; in casa dei suoceri l’atmosfera era già fin troppo tesa. Se la mamma non si svegliava abbastanza presto per lavorare, Nainai s’incupiva e andava dai vicini a lamentarsi di quanto fosse pigra. «Le giovani mogli di oggi non sono affatto come noi alla loro età» brontolava.
Chaoyang, il villaggio, era una comunità piuttosto nuova nella contea di Ninghe. Era stato ricostruito in seguito allo spaventoso terremoto di Tangshan del 1976, in cui avevano perso la vita 240000 persone. Dopo la tragedia i superstiti avevano fondato Chaoyang, che letteralmente significa «che guarda il sole», nella speranza di un futuro più roseo.
Non si sa con certezza a quando risalgano i primi insediamenti nella contea di Ninghe – non ci sono documenti in proposito. Gli anziani, con i loro lunghi pizzetti bianchi, sostenevano che i nostri antenati vi ci fossero stabiliti durante la dinastia Qing (1644-1912) per sfuggire a una carestia. Mi è sempre piaciuto ascoltarli discutere della storia del villaggio mentre, a occhi chiusi, si tormentavano la barba con una mano. Potevano stare accovacciati nella penombra a chiacchierare per ore. Erano moderni cantastorie, o griot.
Pur essendo cresciuta in un altro villaggio, mia madre si era adattata facilmente a Chaoyang, un paese così piccolo che, come in quello da cui veniva, tutti gli abitanti si conoscevano tra loro. Nessuna delle donne era originaria del posto – all’epoca era così che funzionava – dunque per ascoltare le storie migliori bisognava rivolgersi agli uomini.
In una comunità tanto ristretta i pettegolezzi non potevano essere arginati per più di un giorno, un pensiero che quella mattina andava a sommarsi alle preoccupazioni di mia madre.
A Chaoyang abitavano circa cinquecento persone, e le vie erano soltanto tre; una asfaltata, le altre due di mattoni rossi. Vivere nelle case che affacciavano sulla strada asfaltata era considerata una fortuna. Era la via più comoda, più moderna, e a differenza di quelle pavimentate, nei giorni di pioggia non si riempiva di pozzanghere. Per capire quanto si trattasse di un segnale di prestigio basta dire che il capo villaggio aveva fatto asfaltare il tratto di strada davanti al suo ufficio. Chi come noi abitava lungo la via di mattoni costruiva case più alte e sfarzose per supplire al senso di inferiorità.
Tutti gli esponenti della mia famiglia, i Kan, lavoravano su oltre dieci mu – più di 1,6 acri – di terreno. All’epoca il clima era abbastanza umido da incoraggiare gli agricoltori a coltivare riso. Ninghe era conosciuta per le risaie, i canneti e il pesce. All’inizio del ventesimo secolo, quando i miei nonni erano ancora giovani, tutti gli abitanti della zona si guadagnavano da vivere sfruttando una di quelle risorse. Quando il primo ponte della contea non era ancora stato costruito, i contadini attraversavano il fiume a bordo di dinghy di legno. Sulla sponda file e file di canne svettanti si estendevano simili a onde di un mare verde. Ma a metà degli anni Novanta, quando ero bambina io, Ninghe fu colpita dalla siccità e l’inquinamento idrico uccise i pesci. Ben presto le rigogliose coltivazioni di riso vennero sostituite da campi di granturco e cotone, che richiedevano minore irrigazione.
Ci voleva il duro lavoro di tutta la famiglia per amministrare la tenuta. Uscivano al mattino presto, quando l’acqua nella risaia era ancora fredda. Con i loro vestiti da contadini – pantaloni ampi e larghe casacche grigie – assomigliavano a tante formiche in uniforme.
Secondo l’estetica cinese mia madre era una bella donna, con grandi occhi ombrosi e il naso piccolo. Legava la lunga chioma con una sciarpa, che poi lasciava scivolare giù a proteggerle il collo dal sole. Rispetto alla maggior parte delle donne del villaggio aveva la pelle più chiara, spruzzata di lentiggini. Si diceva che le donne con le lentiggini celassero uno spirito ribelle. Era anche una lavoratrice vigorosa. Poteva camminare su e giù per il campo per ore, scalza, fila dopo fila. Era bassa ma robusta, concentrata e veloce. Mentre le altre si fermavano sugli argini della risaia per riposarsi e bere, la mamma continuava a camminare.
Tuttavia, con grande scorno dei suoceri, si dedicava all’agricoltura soltanto nel weekend. Durante la settimana faceva il lavoro che amava veramente, quello per cui poteva indossare camicette a fiori e morbidi vestiti di poliestere.
Era maestra elementare nel villaggio in cui era nata, Caiyuan. Il fatto che continuasse a insegnare anche a inizio estate – un momento critico nella coltura del riso – le era valso l’etichetta di testarda.
Se voleva assicurarsi un buon raccolto, la mia famiglia doveva impegnarsi molto e lavorare velocemente; inoltre mio nonno paterno, Wengui, era un uomo difficile da accontentare. A quei tempi i contadini avevano accesso a un numero assai limitato di macchinari, e i cavalli erano pochi, dunque gran parte del lavoro si svolgeva a mano.
Nel 1982 la Cina intraprese un’importante riforma agraria. Mentre in passato gli abitanti di un villaggio lavoravano la terra tutti insieme – come comunità – il nuovo sistema prevedeva che si affittassero gli appezzamenti a singoli gruppi familiari. In questo modo, maggiore era il tempo che un contadino dedicava alla sua terra, migliori sarebbero stati il raccolto autunnale nonché i guadagni della famiglia. Quest’idea aveva trasformato nonno Wengui in una specie di sergente istruttore – esigeva che tutti fossero sempre pronti e disponibili – rendendolo particolarmente ostile alla scelta di mia madre di occupare altrove il proprio tempo.
La riforma agraria portò al collasso delle comuni popolari, un sistema di cooperative agricole introdotto nel 1960 dal Grande Balzo in Avanti, ossia la campagna con cui il presidente Mao, stabilendo obiettivi produttivi irraggiungibili, si proponeva di battere il livello di sviluppo dei Paesi occidentali nel giro di pochi anni. Secondo il governo la produzione di acciaio del 1959 avrebbe dovuto superare di quattro volte quella del 1957, e quella di grano raddoppiare. Gli intenti erano chiari.
Mia madre, ai tempi solo una ragazzina, mi raccontò che un giorno il capo villaggio si era presentato a casa loro per annunciare che, di lì in avanti, avrebbero mangiato carne e patate ogni giorno. Erano rimasti tutti sbalorditi; si trattava del miglior cibo cui un contadino potesse avere accesso. Mia nonna cucinava la carne meglio di chiunque altro. La mamma, come i suoi fratelli, era al settimo cielo finché un giorno, tornata a casa, aveva trovato sua madre che singhiozzava in silenzio. Erano passati i funzionari locali e avevano confiscato il tavolo da pranzo e l’unico wok di ferro, un oggetto di grande valore per la maggior parte delle famiglie cinesi. «Questi non vi servono più» aveva dichiarato il capo villaggio con aria severa. «Mangerete tutti insieme nella mensa pubblica». Quindi si era sfilato un taccuino dalla tasca dell’uniforme maoista – un abito azzurro scuro con pantaloni larghi e giacca a quattro tasche senza colletto – e aveva preso nota degli oggetti sequestrati. «Dite pure addio alla vecchia vita in cui ognuno si curava solo della propria famiglia e di se stesso. Nelle comuni popolari ci si supporta a vicenda».
Ma le mense popolari ebbero vita breve. Il primo mese si mangiarono davvero carne e patate, mentre già dal secondo nient’altro che riso e verdure bollite. L’ultimo mese i cuochi non avevano abbastanza grano per preparare tre pasti al giorno. Nell’arco di tre anni, per quanto i contadini continuassero a lavorare negli appezzamenti comuni, le mense vennero chiuse. Più tardi il governo annunciò che si era trattato di un «grande esperimento di rivoluzione proletaria» e che i lavoratori avevano il permesso di tornare ciascuno alla propria cucina. Li avevano usati, come topi da laboratorio.
Sebbene la produzione di grano fosse al minimo, i funzionari di molti villaggi in tutta la Cina gonfiarono i rendimenti per fare bella impressione con i superiori. In seguito alla registrazione delle cifre modificate, il governo centrale aveva raccolto una quantità di grano del tutto sproporzionata, lasciandone pochissimo per le province. Questo contribuì alla Grande Carestia, che durò dal 1959 al 1961, durante la quale decine di milioni di persone morirono di stenti. La mamma conserva il vivido ricordo delle visite con suo padre alle tombe degli antenati, su cui cresceva un’erba amara che raccoglievano per cena. All’epoca aveva quattro anni, e quello era l’unico cibo a disposizione.
[da Sotto cieli rossi di Karoline Kan, trad. di Benedetta Gallo, Bollati Boringhieri, 2020]
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