Visionario, intelligente, tenero. Questo è il romanzo “Hotel Padreterno” di Roberto Pazzi, dove l’Onnipotente, vestendo i panni di un tale Giovanni Eterno, prende treni, alloggia in tristi alberghetti, si guarda riflesso nella vetrina di una libreria che mostra copie di un libro intitolato ‘Il destino di Dio’. Ha deciso, infatti, di scendere sulla Terra, mettendo in comprensibile apprensione suo figlio (di un’esperienza analoga conosce certi inconvenienti) che, a prezzo di animate discussioni, non manca di dare qualche dritta al vecchio padre. In effetti c’è di che preoccuparsi nel vedere quel vegliardo – barba di neve, naso affilato e borse sotto gli occhi – aggirarsi per Roma come uno smemorato con indosso un cappotto cammello, pashmina al collo, Borsalino nero, scarpe a coda di rondine, guanti gialli. L’unico a intuire l’identità del vecchio è il piccolo Davide dai capelli rossi, che un giorno sulla metro si alza per cedergli il posto e, incuriosito, inizia a fargli domande su come si chiami, quanti anni abbia, in quale giorno compia gli anni. Il vecchio non sa rispondere (“Veramente, ora che mi ci fai pensare, non credo di essere mai nato”) così che il bambino gli suggerisce di andare da un bravo dottore, che è dove sta andando lui insieme alla mamma Anna. Perché Davide ha una grave malattia e, accarezzandogli la testa, sarà proprio quel nonno un po’ svanito a guarirlo. Giovanni Eterno trascorre a Roma alcuni mesi, nonostante che dai superni spazi se ne solleciti il ritorno e in Vaticano si insinui qualche sospetto. Dorme in un hotel a due stelle frequentato da bizzarri personaggi. Conosce il padre di Davide, un giostraio sognatore. Si innamora di Anna e sperimenta il tormento della gelosia. Diventato fin troppo umano, la decadenza fisica di Giovanni Eterno si manifesta con un incipiente Parkinson. Dovrà dunque essere affrontato il problema della sua morte (della morte di Dio). Questione non semplice, da trattare con la stessa Morte. Verrà trovata una soluzione facendo accettare al vecchio di rivelare con un miracolo le ragioni della sua discesa in Terra. Roberto Pazzi propone una parabola fantastica e penetrante sul rovello che da sempre inquieta l’uomo in tema di vita e immortalità. Oggi più che mai angosciante per come non solo i destini individuali ma pure quelli collettivi appaiano incerti, talvolta senza futuro. Insomma, roba che ci riguarda. Non a caso l’autore avverte in esergo: “A te, che leggi, la Persona che a queste pagine mancava”.
***
1. Uno smemorato sulla metropolitana di Roma
In cielo invecchio? Un bambino si è subito alzato per cedermi il posto, sulla metropolitana di Roma. La mamma, occupatissima a inviare messaggi, non s’è neanche accorta di me.
“Sei gentile, grazie.”
“Ma tu quanti anni hai?”
Mi arrivava appena alla testa, quando mi sono seduto. Con quei capelli rosso fiamma, al bel cherubino mancavano solo le ali.
“Sai che di preciso non lo so?”
“E te ne vai in giro senza saperlo?”
“C’è proprio bisogno di saperlo? Non me l’ha mai chiesto nessuno.”
Si è messo a ridere di gusto.
“Io lo so che il 5 giugno ne compio undici, lo saprai ben anche tu quando sei nato, dai.”
“Veramente, ora che mi ci fai pensare, non credo di essere mai nato.”
“Ah ah, ma sei matto? Cosa dici? Non c’è nessuno che ti bada?”
“Vuoi badarmi tu? Come ti chiami?”
“Davide e tu?”
Prima di rispondergli ho esitato. Come sarebbe andata a finire? Mantenere un basso profilo senza dare nell’occhio era certo più saggio, l’avevo promesso a mio figlio.
“Mi chiamano in tanti modi, ma facciamo così, tu chiamami nonno.”
“Ma io il nonno ce l’ho, si chiamava Giovanni.”
“Che bel nome, ho diversi amici con quel nome.”
“Dai, dimmi come ti chiami, così lo scrivo sul diario.”
“Sul diario?”
“Sì, la maestra ci fa scrivere un registro giornaliero dei pensieri.”
“Allora lo scriverai domani.”
“Sì, domani, adesso mica vado a scuola.”
“E dove vai ora, Davide?”
“Dal dottore, ma non puoi venire con noi.”
“Pensi che dovrei farmi visitare dal dottore con te?”
“Ne hai bisogno, nonno, non ti ricordi neanche quando sei nato e come ti chiami.”
“Forse hai ragione, ma rimando sempre la visita.”
“Perché sei un fifone.”
Ora Davide mi guardava con vero compatimento e avvicinandosi, sottovoce all’orecchio, mi faceva la sua proposta: “A me piace molto giocare al dottore. Senti, se vuoi ti visito un pochino io.”
“Certo, Davide, così mi ordinerai un bello sciroppo per la tosse.”
“Macché sciroppo per la tosse. Tu, nonno, hai bisogno di una medicina per ricordare le cose.”
“Hai ragione, Davide.”
“Il mio dottore è molto bravo, non fa mai male quando mi infila il cucchiaio in gola.”
“Davide, adesso basta importunare questo signore, scendiamo alla prossima, su, preparati.”
La bella madre era finalmente intervenuta. Infastidita, cominciava a guardarmi con un certo sospetto per quel mio stare al gioco, pur così occupata a leggere e a rispondere ai suoi messaggi.
“Dai nonno, dimmelo il nome che non lo dico a nessuno.”
“Perché?”
“Perché non è che non lo sai, come ti chiami, ma non vuoi dirlo.”
La metro stava ormai rallentando per la nuova fermata e la gente si reggeva già ad appoggi e corrimano. Parevo l’unico senza una meta, ma non era vero. Ero a Roma perché c’era un problema da queste parti. Salito a Furio Camillo, il caso mi aveva fatto trovare quel posto a sedere, vicino a Davide.
Veniva annunciato due volte da una voce metallica: “Prossima fermata, Termini. Discesa lato destro.”
I passeggeri carichi di zaini si assiepavano all’uscita per la stazione. Io non sapevo ancora di preciso dove andare, ma la mia indecisione pareva meno invidiabile della loro furia di arrivare. Cominciava a contagiarmi la fretta di correre. Un disagio di cui avevo avuto un assaggio con le varie, stupite domande di Davide.
Ora però la madre cacciava nella borsa il telefono. E mi lanciava occhiate sempre più allarmate.
Si è rialzata da sedere di scatto, ha preso con uno strattone per mano suo figlio. Quando poi mi sono levato dal posto anch’io, si è affrettata a scendere davanti a me, senza degnarmi di una parola, tirandosi dietro il figlio che si voltava a farmi ciao ciao. A lungo ho seguito con gli occhi la fiamma dei capelli rossi da cherubino fra la folla accalcata sulle scale mobili. Finché non l’ho perso di vista. Quella bella madre parlava fitto fitto col suo bambino. Certo lo sgridava per avermi dato troppa confidenza, mettendolo in guardia contro certi vecchi pervertiti che avvicinano i bambini, con il loro fare gentile e scherzoso.
[da Hotel Padreterno di Roberto Pazzi, La nave di Teseo, 2021]
Visionario, intelligente, tenero. Questo è il romanzo “Hotel Padreterno” di Roberto Pazzi, dove l’Onnipotente, vestendo i panni di un tale Giovanni Eterno, prende treni, alloggia in tristi alberghetti, si guarda riflesso nella vetrina di una libreria che mostra copie di un libro intitolato ‘Il destino di Dio’. Ha deciso, infatti, di scendere sulla Terra, mettendo in comprensibile apprensione suo figlio (di un’esperienza analoga conosce certi inconvenienti) che, a prezzo di animate discussioni, non manca di dare qualche dritta al vecchio padre. In effetti c’è di che preoccuparsi nel vedere quel vegliardo – barba di neve, naso affilato e borse sotto gli occhi – aggirarsi per Roma come uno smemorato con indosso un cappotto cammello, pashmina al collo, Borsalino nero, scarpe a coda di rondine, guanti gialli. L’unico a intuire l’identità del vecchio è il piccolo Davide dai capelli rossi, che un giorno sulla metro si alza per cedergli il posto e, incuriosito, inizia a fargli domande su come si chiami, quanti anni abbia, in quale giorno compia gli anni. Il vecchio non sa rispondere (“Veramente, ora che mi ci fai pensare, non credo di essere mai nato”) così che il bambino gli suggerisce di andare da un bravo dottore, che è dove sta andando lui insieme alla mamma Anna. Perché Davide ha una grave malattia e, accarezzandogli la testa, sarà proprio quel nonno un po’ svanito a guarirlo. Giovanni Eterno trascorre a Roma alcuni mesi, nonostante che dai superni spazi se ne solleciti il ritorno e in Vaticano si insinui qualche sospetto. Dorme in un hotel a due stelle frequentato da bizzarri personaggi. Conosce il padre di Davide, un giostraio sognatore. Si innamora di Anna e sperimenta il tormento della gelosia. Diventato fin troppo umano, la decadenza fisica di Giovanni Eterno si manifesta con un incipiente Parkinson. Dovrà dunque essere affrontato il problema della sua morte (della morte di Dio). Questione non semplice, da trattare con la stessa Morte. Verrà trovata una soluzione facendo accettare al vecchio di rivelare con un miracolo le ragioni della sua discesa in Terra. Roberto Pazzi propone una parabola fantastica e penetrante sul rovello che da sempre inquieta l’uomo in tema di vita e immortalità. Oggi più che mai angosciante per come non solo i destini individuali ma pure quelli collettivi appaiano incerti, talvolta senza futuro. Insomma, roba che ci riguarda. Non a caso l’autore avverte in esergo: “A te, che leggi, la Persona che a queste pagine mancava”.
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1. Uno smemorato sulla metropolitana di Roma
In cielo invecchio? Un bambino si è subito alzato per cedermi il posto, sulla metropolitana di Roma. La mamma, occupatissima a inviare messaggi, non s’è neanche accorta di me.
“Sei gentile, grazie.”
“Ma tu quanti anni hai?”
Mi arrivava appena alla testa, quando mi sono seduto. Con quei capelli rosso fiamma, al bel cherubino mancavano solo le ali.
“Sai che di preciso non lo so?”
“E te ne vai in giro senza saperlo?”
“C’è proprio bisogno di saperlo? Non me l’ha mai chiesto nessuno.”
Si è messo a ridere di gusto.
“Io lo so che il 5 giugno ne compio undici, lo saprai ben anche tu quando sei nato, dai.”
“Veramente, ora che mi ci fai pensare, non credo di essere mai nato.”
“Ah ah, ma sei matto? Cosa dici? Non c’è nessuno che ti bada?”
“Vuoi badarmi tu? Come ti chiami?”
“Davide e tu?”
Prima di rispondergli ho esitato. Come sarebbe andata a finire? Mantenere un basso profilo senza dare nell’occhio era certo più saggio, l’avevo promesso a mio figlio.
“Mi chiamano in tanti modi, ma facciamo così, tu chiamami nonno.”
“Ma io il nonno ce l’ho, si chiamava Giovanni.”
“Che bel nome, ho diversi amici con quel nome.”
“Dai, dimmi come ti chiami, così lo scrivo sul diario.”
“Sul diario?”
“Sì, la maestra ci fa scrivere un registro giornaliero dei pensieri.”
“Allora lo scriverai domani.”
“Sì, domani, adesso mica vado a scuola.”
“E dove vai ora, Davide?”
“Dal dottore, ma non puoi venire con noi.”
“Pensi che dovrei farmi visitare dal dottore con te?”
“Ne hai bisogno, nonno, non ti ricordi neanche quando sei nato e come ti chiami.”
“Forse hai ragione, ma rimando sempre la visita.”
“Perché sei un fifone.”
Ora Davide mi guardava con vero compatimento e avvicinandosi, sottovoce all’orecchio, mi faceva la sua proposta: “A me piace molto giocare al dottore. Senti, se vuoi ti visito un pochino io.”
“Certo, Davide, così mi ordinerai un bello sciroppo per la tosse.”
“Macché sciroppo per la tosse. Tu, nonno, hai bisogno di una medicina per ricordare le cose.”
“Hai ragione, Davide.”
“Il mio dottore è molto bravo, non fa mai male quando mi infila il cucchiaio in gola.”
“Davide, adesso basta importunare questo signore, scendiamo alla prossima, su, preparati.”
La bella madre era finalmente intervenuta. Infastidita, cominciava a guardarmi con un certo sospetto per quel mio stare al gioco, pur così occupata a leggere e a rispondere ai suoi messaggi.
“Dai nonno, dimmelo il nome che non lo dico a nessuno.”
“Perché?”
“Perché non è che non lo sai, come ti chiami, ma non vuoi dirlo.”
La metro stava ormai rallentando per la nuova fermata e la gente si reggeva già ad appoggi e corrimano. Parevo l’unico senza una meta, ma non era vero. Ero a Roma perché c’era un problema da queste parti. Salito a Furio Camillo, il caso mi aveva fatto trovare quel posto a sedere, vicino a Davide.
Veniva annunciato due volte da una voce metallica: “Prossima fermata, Termini. Discesa lato destro.”
I passeggeri carichi di zaini si assiepavano all’uscita per la stazione. Io non sapevo ancora di preciso dove andare, ma la mia indecisione pareva meno invidiabile della loro furia di arrivare. Cominciava a contagiarmi la fretta di correre. Un disagio di cui avevo avuto un assaggio con le varie, stupite domande di Davide.
Ora però la madre cacciava nella borsa il telefono. E mi lanciava occhiate sempre più allarmate.
Si è rialzata da sedere di scatto, ha preso con uno strattone per mano suo figlio. Quando poi mi sono levato dal posto anch’io, si è affrettata a scendere davanti a me, senza degnarmi di una parola, tirandosi dietro il figlio che si voltava a farmi ciao ciao. A lungo ho seguito con gli occhi la fiamma dei capelli rossi da cherubino fra la folla accalcata sulle scale mobili. Finché non l’ho perso di vista. Quella bella madre parlava fitto fitto col suo bambino. Certo lo sgridava per avermi dato troppa confidenza, mettendolo in guardia contro certi vecchi pervertiti che avvicinano i bambini, con il loro fare gentile e scherzoso.
[da Hotel Padreterno di Roberto Pazzi, La nave di Teseo, 2021]
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