Si chiama zonda. È il vento che scende dalle cime e dai crinali delle Ande e che, forte e persistente, fruga in ogni anfratto di muri, terra, esistenze. Forse è il suo turbinio cui allude il titolo “Hai portato con te il vento”, ultimo romanzo della scrittrice ecuadoregna Natalia García Freire (traduzione di Lara Dalla Vecchia, edizioni Sur). Nel caso specifico, quel vento ha in sé qualcosa di cupo e di magico. Perché tale è l’atmosfera su Cocuán, un villaggio che, semmai se ne conoscesse l’esistenza, è destinato all’oblio. Lì vive la giovane Mildred Capa, una creatura speciale. Quando è nata ha portato con sé il vento “che trasportava le cipsele dei denti di leone in tutto il mondo, il vento che calma il bestiame”. La mamma le accarezzava la pelle coperta di piaghe e sorrideva, perché diceva che sotto era piena di luce, era un angelo. Quell’anno il vento aveva fatto calare le acque, portato tordi, tortore e rondini, scacciato gli insetti che aggrediscono le piante. Ora, dopo la prematura morte della madre e la scomparsa del padre, vive sola allevando porci sul limitare del bosco. La malvagità degli abitanti del villaggio (“la carne viva è molto cattiva”, dice uno dei personaggi) fa sì che la ragazza venga privata della casa e dei terreni. Complice il parroco Santamaria – ambigua figura dagli occhi chiari che mettevano paura, la bocca piccola e la pelle lentigginosa come quella di un bambino – Mildred viene rinchiusa in un monastero. Di lei non si saprà più nulla. A distanza di anni a Cocuán cominciano ad accadere fatti strani: sparizioni di persone, episodi di pazzia collettiva, fenomeni inquietanti. Sorge il sospetto che possa trattarsi della maledizione della vecchia Mildred. Ecco allora come il romanzo prenda forma attraverso la narrazione alternata di nove personaggi che, a loro modo e per la loro parte, fanno memoria di quella oscura leggenda. Natalia García Freire costruisce così una storia dove il reale smargina continuamente sull’immaginario, i fatti trasfigurano in leggenda, il dire si fa esorcismo. Riuscito esempio di come ogni mito sia di per sé letteratura: a crearlo è pur sempre il racconto mosso dall’urgenza di spiegare l’inspiegabile; di dare un ordine alle contraddizioni, una ragione al terribile.
***
Ricorda, Mildred, ricordatelo bene, mi disse ma’ prima di morire:
Non ti grattare. Pulisciti bene davanti e dietro, affacciati ogni giorno al balcone finché non vorrai spegnere il sole. Lava i vestiti tutti i giorni, lavali due volte; quando si rovinano, bruciali. E non permettere mai a nessuno di vedere le tue piaghe.
Poi chiuse gli occhi. Le palpebre le tremarono per un istante. Pa’ scostò il lenzuolo e mi mostrò il suo corpo, che ormai non era più scuro ma di un bianco lattiginoso, della sostanza di cui è fatto il freddo. I seni erano molto piccoli, come i miei, le costole sporgevano come quelle di Gesù crocifisso e il pube era ricoperto da una peluria nera e assai folta.
Guarda la tua ma’, disse. Guardala ora che ha chiuso gli occhi per noi e li ha aperti al cielo. E poi andò ad aggiustare con qualche colpo di martello la porta dai cardini allentati, che graffiava il pavimento di legno con un suono simile a denti digrignati in una mascella serrata.
Nel frattempo pa’ mi parlava.
Mildred, ascolta, Mildred. Quando sei nata, la tua ma’ ha detto che hai portato con te il vento. Era un vento tiepido. Quel vento non ha paura. Quel vento si rifugia tra i cumuli di fieno e riposa nei pozzi per poi sfiorare placido i fiori, farli sbocciare e allora sfuggire via attraverso vortici di foglie in cui si ricorda di essere vento perché fischia. Hai portato con te il vento che trasportava le cipsele dei denti di leone in tutto il mondo, Mildred. Il vento che calma il bestiame. Quel vento non ha paura. Coloro che vivono nel timore diventeranno selvaggi. Ma tu no, ascoltami Mildred, tu no. La tua ma’ ti accarezzava la pelle coperta di piaghe e sorrideva, perché diceva che sotto eri piena di luce. Ci hanno mandato un angelo, mi ha detto quando ti abbiamo portata al fiume per farti benedire dalle sue acque, la chiameremo Mildred, e non permetteremo a nessuno di portarcela via. E quell’anno il vento ha fatto calare le acque, Mildred, e ha portato tordi, tortore e rondini. È stato quel vento a scacciare le cocciniglie, le pulci, i pidocchi delle piante e le mosche bianche.
Quando pa’ ebbe finito, aprì e chiuse la porta un paio di volte e uscì con passo tranquillo.
Resta qui, a casa nostra, Mildred, e guarda la tua ma’, disse.
Con il martello in mano, sparì tra i paletti che segnavano il limitare della nostra terra. Lo osservai andarsene dalla finestra della camera e rimasi in piedi davanti al corpo di ma’, che era freddo e si era fatto grigio.
Le lucciole e i grilli portarono il rumore della notte, gli occhi di ma’ sprofondarono nelle loro orbite, aveva il ventre gonfio come una bambola di pezza, e pa’ non tornò.
Arrivò il parroco Santamaría e mi trovò in piedi, il lenzuolo bianco per terra, rovinato da un liquido che trasudava dal corpo di ma’. La portò via avvolta nelle coperte. Provai a fermarlo, ma mi allontanò con una mano, toccandomi una piaga sul petto. Tremai.
Di’ a tuo padre che la veglia durerà un giorno solo e che domani le faremo il funerale.
La casa si fece buia, il vento soffiava forte, io mi addormentai e sognai che ma’ si era trasformata in una bambola di pezza che diventava sempre più piccola, fino a raggiungere la grandezza di un’unghia, e poi si dissolveva in particelle di polvere e luce.
Pa’ non tornò per il funerale.
Io non potevo andare al villaggio, anche se lì c’era il corpo di ma’, non potevo. Raggiunsi il portico e colsi le peonie che le piacevano tanto, poi misi il vestito azzurro come il cielo nei giorni più caldi dell’inverno, il vestito preferito di ma’, e imboccai il sentiero verso il fiume, con i fiori in mano, come una sposa, tra balzi e saltelli.
Finché non mi sedetti a piangere.
Io ero stanca e i fiori appassiti. Calò la sera e sentii che le piaghe mi bruciavano. Sollevai il vestito e ne accarezzai il contorno con le dita, come aveva sempre fatto ma’. A volte immaginavo di avere un minuscolo sole dentro di me, che bruciava e mi lasciava stelle, cumuli e galassie sulla pelle. Allora credevo che la mia pelle parlasse nel linguaggio della luce, ma io non riuscivo a capire, perché quel linguaggio doveva essere antico come i primi spettri che abitarono la terra e instillarono negli esseri umani le visioni e i brividi.
Dal villaggio arrivava un’eco, il mormorio di un canto. Lì intonavano sempre la stessa melodia quando qualcuno moriva: «Spero in te, Signor, spero in te: debole sono ognor, ma spero in te». Non sapevo perché stessero cantando al suo funerale, non conoscevano bene ma’, non venivano mai a casa nostra e lei scendeva al villaggio solo per pagare a Iván l’affitto dei terreni. Ma’ odiava Cocuán.
Quando arrivai a casa, pa’ non era tornato, non c’erano i suoi stivali all’ingresso, né il suo cappello sul tavolo. Entrai e alle mie spalle avvertii un odore di candeggina e mentolo. Quando mi voltai, vidi il parroco Santamaría sulla soglia, avvolto dal buio della notte. Ebbi paura dei suoi occhi chiari, della sua bocca piccola e della sua pelle lentigginosa così simile a quella di un bambino.
Oggi seppelliamo tua madre, disse. È al cimitero. Devi venire almeno a portarle un fiore.
Ma’ non mi lascia scendere al villaggio, gli dissi.
Tua madre non c’è più. Io e gli altri pensiamo che staresti meglio in una casa giù al villaggio o nel monastero.
Non risposi e provai a chiudere in fretta la porta, ma il parroco la bloccò con il piede. Mi strattonò forte per la manica. Il colletto del vestito si aprì e io lo vidi fissarmi le piaghe.
Non puoi essere così sciocca, mi disse.
Pa’ sta per arrivare, risposi.
Gli afferrai il braccio con le mani tremanti, mi avvicinai un po’ di più, alzai lo sguardo e gli sputai addosso.
Torno domani, Mildred.
[da Hai portato con te il vento di Natalia García Freire, trad. di Lara Dalla Vecchia, Sur, 2024]
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