Grossman, lo strappo dell’abbandono in una tormentata saga familiare

Luigi Oliveto

12/12/2019

Il romanzo di David Grossman, “La vita gioca con me” (Mondadori) è una storia di distacchi, lontananze, una catena di abbandoni e di ricongiungimenti affatto facili. È una saga familiare che si svolge entro ciò che l’autore chiama un “quadrilatero” di affetti. A raccontarla è Ghili. È lei che a inizio libro ci dice: "Tuvia era mio nonno. Vera è mia nonna. Rafael, Rafi, mio padre, e Nina… Nina non c'è. Nina non è qui. È sempre stato questo il suo contributo particolare alla famiglia". Tutto inizia con la nonna Vera – ebrea cresciuta in una cittadina jugoslava – e con il suo grande amore per Milos, che sposa giovanissima e dalla cui unione nasce Nina. Un grande amore, appunto, tanto che quando Milos si uccide perché falsamente accusato di essere spia stalinista, Vera sceglie la prigionia e finisce nel gulag di Goli Otok pur di non tradire la memoria del marito. Ma questo significa abbandonare la figlioletta Nina. La bimba cresce come un’orfana allo sbando, ruvida nel carattere e negli affetti. Nel 1962, una volta libera, Vera, con la figlia Nina, lascia la Jugoslavia alla volta di Israele. Qui avviene l’incontro con Tuvia, che è vedovo come lei e che ha un figlio adolescente, Rafael, bisognoso di una presenza materna. Tuvia e Vera si sposano. Rafael si innamorerà di Nina. Un altro grande e tormentato amore, perché Nina è persona irrequieta, sempre in giro per il mondo e in fuga da sé stessa, così che anche lei abbandona la figlia Ghili (la voce narrante del romanzo). C’è dunque un drammatico strappo (sempre lo stesso) che attraversa tre generazioni. Si proverà a ricomporlo, a dare quiete ai tormenti di una vita, allorché Vera, in occasione del suo novantesimo compleanno (e sulla soglia di un’incipiente demenza senile) propone a tutti un viaggio a Goli Otok. Sarà Ghili, provetta videomaker, a documentare con una telecamera quel ritorno al luogo che ha segnato le loro esistenze. Sull’isola dove i marosi flagellano gli scogli, si proverà a dire verità crudeli, giustificazioni comunque imperfette. Come imperfetti sono gli affetti – anche quelli famigliari – sempre in bilico tra fughe e ricongiungimenti.
 
***
 
Rafael aveva quindici anni quando sua madre morì e lo liberò dalle sue sofferenze. La pioggia cadeva sui membri del kibbutz accalcati sotto gli ombrelli nel piccolo camposanto. Tuvia, il padre di Rafael, singhiozzava. Per anni si era preso cura della moglie, e sembrava un orfanello sperduto. Rafael, in pantaloncini corti, se ne stava in disparte con un cappuccio calato sugli occhi perché nessuno vedesse che non piangeva. Rifletteva: “Adesso che la mamma è morta, scoprirà tutto quello che pensavo di lei”.
Era l’inverno del 1962. Un anno dopo suo padre incontrò Vera Novak, arrivata in Israele dalla Iugoslavia con l’unica figlia, Nina, una ragazza di diciassette anni, alta, con i capelli chiari e il viso oblungo, pallido e bellissimo, quasi completamente privo di espressione, e i due cominciarono a convivere.
I compagni di classe di Rafael chiamavano Nina “la Sfinge”, la seguivano di nascosto, ne imitavano l’andatura con le braccia strette intorno al corpo e lo sguardo perso nel vuoto. Una volta lei agguantò due di quei ragazzi e gli spaccò la faccia. Mai nel kibbutz si erano viste botte del genere. Era incredibile quanta forza e ferocia ci fossero in quelle braccia e in quelle gambe esili. Cominciarono a circolare voci su di lei. Dicevano che quando sua madre era stata prigioniera politica in un gulag, Nina – che allora era una bambina – fosse finita in mezzo a una strada. E accompagnavano le parole con sguardi carichi di significato. Dicevano che a Belgrado si fosse unita a una banda di teppisti che rapivano bambini per ottenere un riscatto. Dicevano. La gente parla.
La storia delle botte, altri episodi e le dicerie non squarciarono la nebbia nella quale Rafael viveva immerso dalla morte della madre. Per mesi rimase in uno stato di narcolessia auto-indotta. Due volte al giorno, mattina e sera, ingoiava un sonnifero che prendeva dall’armadietto dei medicinali della defunta. Di tanto in tanto si imbatteva in Nina, ma non la notava nemmeno.
Una sera, circa sei mesi dopo la morte della madre, mentre attraversava la piantagione di avocado diretto in palestra, vide Nina che veniva verso di lui. Camminava a testa bassa, con le braccia strette intorno al corpo, come se avesse freddo. Rafael si fermò, incomprensibilmente nervoso. Lei, chiusa in se stessa, non lo vide. Lui notò la sua andatura. Fu quella la prima cosa che lo colpì. Un incedere pacato, misurato. La fronte alta, bianca, un abito blu, semplice e leggero, che le sventolava intorno ai polpacci.
L’espressione del viso di Rafael mentre raccontava...
Quando Nina gli fu vicino, lui si rese conto che piangeva. Un pianto soffocato. E a quel punto anche lei notò Rafael. Si fermò, si ingobbì. I loro sguardi si aggrovigliarono per qualche istante e – lo dico con rammarico – in maniera indistricabile. «Il cielo, la terra, gli alberi» mi disse Rafael, «non so... Mi sentivo come se la natura fosse svenuta.»
Nina si riprese per prima. Sbuffò, irritata, e si allontanò in fretta. Lui ebbe ancora il tempo di lanciarle un’occhiata, vide che il suo viso era tornato inespressivo e sentì qualcosa gonfiarglisi dentro. Allungò la mano verso di lei. Riesco proprio a vederlo lì, in piedi, con la mano tesa.
E così è rimasto, con quella mano a mezz’aria, per quarantacinque anni.
Ma quel giorno, nella piantagione, senza riflettere e prima di avere ripensamenti, Rafael rincorse Nina con uno scatto per dirle ciò che aveva capito nel momento in cui l’aveva vista. Tutto in lui si era risvegliato alla vita, mi raccontò. Gli chiesi di spiegarsi. Lui si confuse. Mormorò qualcosa a proposito di quello che si era assopito in lui negli anni della malattia della madre, e ancor più dopo la sua morte. E improvvisamente tutto si era fatto impellente, fatidico, e lui non aveva alcun dubbio che Nina si sarebbe mostrata disponibile nei suoi confronti.
Lei sentì i passi di Rafael che la seguivano, si fermò, si voltò e lo squadrò lentamente. «Che c’è?» gli ringhiò in faccia. Lui arretrò, rabbrividì per quanto era bella, e forse anche per quanto era aggressiva. Ma soprattutto, temo, per quella combinazione di bellezza e di aggressività. Ancora oggi Rafael ha un debole per le donne che mostrano un po’ – anche solo un pizzico – di prepotenza maschile, e persino di maleducazione. Una spezia di questo tipo. Rafael, Rafi...
Nina si mise le mani sui fianchi e in lei si affacciò la ragazza tosta di strada, un animale selvatico. Allargò le narici, annusò Rafael. Lui notò una delicata vena bluastra che le pulsava sul collo e d’un tratto le labbra gli fecero male. Mi disse proprio così, le labbra gli bruciavano per la sete.
“Va bene, abbiamo capito” pensai. “Non devi addentrarti in dettagli.”
Sulle guance di Nina ancora brillavano le lacrime ma i suoi occhi erano freddi, quasi da rettile.
«Tornatene a casa, ragazzino» disse. Lui scosse la testa. No, no. Lei gli si avvicinò lentamente con la fronte, poi l’allontanò, come se cercasse il punto esatto. Rafael chiuse gli occhi e Nina gli sferrò una testata che lo mandò a gambe all’aria ai piedi di un albero di avocado.
«Varietà Ettinger» è solito puntualizzare Rafael quando racconta quell’episodio, perché io non mi scordi che ogni dettaglio è importante. È così che si costruisce un mito.
Rimase disteso, stordito. Si tastò il bernoccolo che aveva cominciato a spuntargli in fronte e si rialzò frastornato. Da quando sua madre era morta non aveva più toccato nessuno, e nessuno aveva toccato lui, a eccezione di alcuni ragazzi con cui aveva fatto a botte. Ma in quel caso era diverso, così gli sembrava. Nina era finalmente arrivata ad aprirgli la testa, a salvarlo dai suoi tormenti. In preda a un dolore cieco le gridò ciò che aveva scoperto nel momento in cui l’aveva vista. Mi confidò che si stupì delle parole che gli uscirono di bocca: banali, volgari. «Da ragazzaccio» disse, «tipo “voglio scoparti” o roba del genere.» Così diverse dai pensieri puri e precisi che aveva su di lei. «Ma per un secondo e mezzo le ho letto in faccia che, nonostante quelle oscenità, lei mi capiva.»
E forse era davvero così. Che ne so io. Perché non dare fiducia a Nina? Perché non credere che una ragazza nata in Iugoslavia, che per alcuni anni era stata davvero abbandonata ed era rimasta senza padre né madre (come in seguito si scoprì), a dispetto di quei presupposti – o magari proprio in virtù di essi – in un istante di grazia avesse sbirciato dentro un ragazzino di un kibbutz israeliano? Un ragazzino introverso (così mi immagino Rafael all’età di sedici anni), solitario, pieno di calcoli segreti e complicati e capace di grandi gesti dei quali nessuno al mondo sapeva niente. Un ragazzo triste, ombroso, ma talmente bello da farti venire le lacrime agli occhi.
 
[da La vita gioca con me di David Grossman, trad. Alessandra Shomroni, Mondadori, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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