27/05/2013
Rimase affezionato per tutta la vita al crocchietto degli amici senesi e considerò Francesco Gori Gandellini persona superiore a qualsiasi altra gli fosse capitato d’incontrare: per severa energia d’intelletto e quieta onestà di passioni. Vittorio Alfieri aveva conosciuto Francesco durante il suo secondo soggiorno a Siena, prolungatosi dal giugno all’ottobre 1777. E non lo dimenticò più. Fu una folgorazione. L’interesse per le arti l’aveva ereditato dal padre Giovanni e lo alimentò per tutta la vita, giovandosi di assidui scambi con esperti di prim’ordine e studiando testi allora in voga in Europa. Finalmente vengono editi in accuratissima e commentata trascrizione due suoi manoscritti – custoditi nella Biblioteca Comunale degli Intronati – che consentono di capire i grandi meriti, non solo di scrupoloso erudito, d’un uomo che fu tra i pioneri della moderna storiografia artistica sulla scuola senese: il “Prospetto della scuola dei pittori senesi per mezzo della descrizione dei migliori loro dipinti che esistono in Siena” ed il “Saggio d’istoria pittorica sanese sopra la vita di Mecarino e le pitture da lui eseguite nella sala del Concistoro di Siena ed i travagli di mosaico che ha fatti nella cattedrale della medesima”. Le curatrici Bernardina Sani e Carlotta Ghizzani accompagnano l’edizione, posta sotto il titolo di un celebre trattato di Alfieri in lode dell’amico scomparso – Gori Gandellini morì a 46 anni, nel 1784 – con pagine saggistiche che ricostruiscono magistralmente clima culturale e idealità civili alla base degli intensi rapporti e delle fervide imprese: “La virtù sconosciuta” (pp. 388, € 34, edizioni ETS, Pisa 2013). Il “Prospetto” nacque su impulso dell’abate e Giuseppe Ciaccheri, che aveva ideato l’ambiziosissimo progetto di una storia delle arti in Siena, e ne costituisce un primo frutto. Esplicita vi è il fine di “affidare all’arte – scrive Ghizzani – il compito di convertire il genere umano, corrotto dall’odio, dalla rabbia, verso sentimenti di carità evangelica”. Edificante e pedagogico, ma in direzione civile, e tutto teso ad additare momenti classici di virtù repubblicane, fu il ciclo affrescato da Domenico Beccafumi sul soffitto della sala del Concistoro in Palazzo Pubblico. Il “Saggio” sul tema, secondo Alfieri, Francesco lo “scrisse – rammenta Sani – come sfogo privato in un contesto politico avverso”. In esso risalta il vigore di un’interpretazione coerentemente politica di un episodio che s’inserisce a perfezione in una pratica della pittura come mezzo per propagandare, attraverso chiare allegorie e mostrando i salutari effetti da esse derivabili, la fedeltà ai valori costitutivi di una comunità.
In questo senso c’è un filo rosso che lega le opere di Ambrogio Lorenzetti e di Taddeo di Bartolo con la raffigurazioni concepite negli anni ultimi della periclitante Repubblica, dopo la fine del regime dispotico del Petrucci e successivamente alla vittoria senese nello scontro di Camollia. Al centro della volta si librano l’amor di patria, la giustizia e la mutua benevolenza. Ma Beccafumi vuole soprattutto illustrare momenti che incitino a imitare gli eroi della romanità che si erano battuti con ogni forza in difesa e affermazione della libertà. E Gori Gandellini per primo si accorse che la fonte letteraria più importante tenuta sott’occhio era Valerio Massimo. Si può immaginare quanto fascino esercitassero quelle storie in Vittorio Alfieri, che amò Siena proprio per questo ardore antitirannico e per la sua fierezza ghibellina. Del resto sia la “Congiura dei Pazzi” sia altre tragedie che si è soliti ricomprendere sotto l’etichetta di “tragedie della libertà” furono composte o abbozzate anche grazie all’influenza esercitata con discrezione dall’ammirato Francesco. E così i due libri della “Tirannide” presero corpo sulla scia delle conversazioni intrattenute a Siena nel salotto retto da Teresa Regoli Mocenni, ai ferri di: San Francesco luogo per eccellenza di diffusione della cultura riformistica leopoldina e dei principi sovvertitori dell’Illuminismo. Il classicismo non consisteva in un repertorio di belle citazioni, ed il disegno romantico e patriottico di un riscatto nazionale non era ancora maturo. Il furente astigiano e il colto senese si muovevano all’unisono nel drammatico ed eccitante spazio che chiude col vecchio e intuisce il nuovo. Così si spiega il vivo ricordo e la perenne gratitudine che Alfieri serba per Gori e per la sua lezione. Al di là dei testi ora dati alle stampe, destinati ad un pubblico specialistico, si rinverdisce quindi la memoria di una vicenda tra le più alte delle tradizioni di una città ospitale, aperta e resa famosa da una cerchia ristretta di intelligenze che seppe guardare con curiosità e coraggio ai movimenti europei più avanzati.
È divertente riprendere qualche lettera di quelle che da Parigi Alfieri spedì al caro Mario Bianchi. “Come hanno passato lor signori il loro carnevale? – sta scritto in una missiva del 9 marzo 1787 – Qui non c’è stato inverno punto, niente di neve, un tempo che sarebbe stato bello a Roma, tutto il gennaio o febbraio”. E proseguiva: “Che fa la cara Teresina? Pensano a me qualche volta? Le accerto ch’io ho sempre Siena nel core e davanti agli occhi; e le mie tristi circostanze me ne allontanano. Pure sempre sospiro gli amici e il bell’idioma. Chi sa quando potrò contentare appieno il mio cuore? Voglio frattanto, subito ritornato in villa, rivedere, far trascrivere l’operetta fatta sull’amico, e poi inviargliene copia: nulla mai mi farà scordare di quell’uomo incomparabile; oh Dio! Qui c’è un milione d’uomini, e non c’è chi valga quanto il suo dito mignolo!”. L’operetta da trascrivere era il dialogo “La virtù sconosciuta”. Alfieri vi conversa col fantasma dell’amico perduto. Il quale non lesina insegnamenti davvero impegnativi: “Non fare mai – subito lo ammonisce –, né dir nulla invano, fu sempre la principale mia massima. E siccome, per mostrarmi io erudito, (se pure stato lo fossi) già non avrei in tutti costoro scemato l'orgoglio, ma di gran lunga bensì accresciuto in essi l’odio e la rabbia della lor dimostrata insufficienza, mi solea perciò tacere, o non parlare, se non richiesto: e ciò brevemente facea, e accompagnando sempre le parole mie col mi pare; formola, che tengono essi cotanto cara in altrui, mentre pure non esce mai di lor bocca. Ma, non crederai tu per ciò, che io avessi concepito il puerile e basso disegno di piacere a tutti, compiacendo ai più, che son di costoro; no; di pochissimi volli, e giovommi, aver l'amore e la stima; degli altri soltanto non volli aver l’odio, il quale, anche non meritato, sempre ad un uomo buono riesce uno spiacevole carico; e sempre suppone che molti hai offeso: e quand’anche ciò facciasi, non se ne accorgendo l’uomo, o col solo valer più degli altri, o col lasciarlo conoscere, a ogni modo viver dovendo fra gli uomini, e non potendo loro giovare offendendoli, se pure d’alcun pensiero si è fatto tesoro, va goduto per sé, o coi pochissimi amici, e interamente dissimulato coi rimanenti”. Parole sante, pure per la nostra età, sconvolta da demagogico populismo e offesa da dissennato clamore mediatico. Francesco Gori Gandellini era convinto che nelle città italiane de’ suoi tempi fosse impossibile vivere in libertà come nelle mitizzate Roma, Sparta e Atene. Non restava che onorare la virtù in silenzio, senza ricercare immediati riscontri e remunerativi successi. E magari dipingerla, rappresentarla in pubblico sui muri, sulle pareti, “per exempla” come si tramandava fosse stata incarnata dagli eroi di un passato da immaginare e coltivare al presente.
Articolo pubblicato sul “Corriere di Siena” del 10 maggio 2013 (pp. 12-13)
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