05/04/2010
Sguazzo nella tecnologia e utilizzo linguaggi più avanzati della contemporaneità per lavoro e per diletto. Mi piace esplorare le vie più avanzate della comunicazione e, nelle zone di frontiera mi trovo a mio agio. Ricerco con euforia ogni nuova traccia mediatica che mi permette di farmi sentire una specie di pioniere comunicativo. Nei sistemi digitali mi cuocio nel mio brodo. In questo campo non ho limite né pregiudizio, ma quando ho appreso che il Museo del Campo di Concentramento di Auschwitz-Birkenau era approdato su Facebook e su YouTube non posso nascondere ho avuto un sobbalzo. Che si è trasformato in perplessità per diversi giorni e durante i quali ho dovuto fare molte, personali, riflessioni. L’impatto era stato da iconoclastia, non mi viene altra parola. Accostare e declinare la sacralità del simbolo Auschwitz alle architetture narrative informali del social network mi era sembrato offensivo e al limite del pagano. Come se, per parlare di certi argomenti, fosse richiesto un linguaggio convenzionale, solenne. Poi il ragionamento mi ha aiutato a ricomporre il tema in un quadro più appropriato. La Shoah ha necessità di essere raccontata, in particolar modo alle nuove generazioni affinché la memoria sia viva e non accucciata in qualche piega mnemonica dove giacciono i ricordi distaccati, distanti. Perché questo accada, con coraggio, dobbiamo avere la capacità di utilizzare un idioma familiare, un tono nel quale i ragazzi possano ritrovarsi, una lingua semplice ed espressiva, per l’appunto da rete sociale. Tutta l’organizzazione di Auschwitz ha dovuto riprogettare il proprio impianto comunicativo. I nuovi media richiedono competenze e contenuti adeguati, speciali, dove i messaggi devono essere disegnati in modo giusto: naturali e in tempo reale. Le domande si susseguono velocemente: valori, memoria, amicizia, sterminio, persone; parole chiave che scorrono dentro la Rete come codici del genoma sincero delle nuove generazioni. Internet che prende linfa dai messaggi dei suoi frequentatori e cede informazione, approfondimento, scambio. Ecco che allora le nuove piattaforme diventano lo spazio dove si può sperimentare un nuovo alfabeto della tolleranza.
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