Golem. Il poeta esule perenne

Giuseppe Burschtein

23/09/2010

Quando nel 1963 viene accusato dalle autorità sovietiche di parassitismo, il dialogo accusatorio compie il giro del mondo. “Quindi chi ha deciso che lei sarebbe un poeta? Ha forse studiato da poeta all’università? Qualche istituzione l’ha preparato? Da dove arrivano dunque i versi che lei chiama poesia?” “Penso che arrivino direttamente da Dio” dice Iosif Aleksandrovich Brodsky. Una risposta che gli costerà la condanna prima alla reclusione in un istituto mentale e poi cinque anni di lavori forzati in Siberia. Ci vorrà la protesta dell’intero mondo intellettuale occidentale per far aprire con anticipo i cancelli della prigione e nel ’72 finalmente abbandona quell’Unione Sovietica che lo aveva perseguitato come ebreo e come poeta intelligente, ironico, infuocato, indipendente. Si trasferisce nel Michigan come docente universitario e lì continuerà il suo lavoro poetico. Diventa Joseph Brodsky e scrive in russo e traduce in inglese con un linguaggio pulito ed eloquente e mette al centro dei suoi lavori i temi dell’esilio e della perdita che riesce a trattare con meticolosa, accurata ossessione. Sarà per sempre un esule. In patria vive in povertà e abbandona gli studi assillato dalla formazione leninista e insegue progetti ambiziosi e interessanti di auto-istruzione. Impara il polacco e l’inglese e inizia a tradurre le poesie di Milosz e Donne. Negli Stati Uniti i suoi versi diventeranno intimi, talvolta religiosi, splendidamente confusi, elitari, ribelli. Attaccano quella Russia che lo ha espulso. Non sotto il profilo ideologico, politico quanto sociale, culturale. Un mondo che lo ha rifiutato come intellettuale e ha usato la questione ebraica come una scusa. E il suo male russo non lo abbandonerà mai. Anzi rimarrà un problema aperto in ogni suo scritto. Odia l’ignoranza materialista, ma supplica Breznev, prima di emigrare, di poter rimanere un “poeta russo”. Nel 1987 gli verrà riconosciuto il Premio Nobel per la Letteratura e il mondo tocca con mano la sua lirica viva, visionaria, amara e dissoluta. Muore nel 1996. E’ sepolto a Venezia quella che chiamò la città più vicina alla sua idea di paradiso. Fragile, umida ed eterna come la sua Leningrado.

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