19/02/2011
Dalla peste bubbonica al semplice raffreddore per le mamme ebree di mezzo mondo c’è un solo rimedio: il brodo di pollo. Toccasana preparato con cura e fatto restringere con amore. Ma il segreto non sta negli ingredienti. La capacità taumaturgica della cucina ebraica, come tutte le preparazioni antiche di mille tradizioni, è racchiusa nella sua capacità di sintetizzare in un piatto, un aroma, un allestimento, la storia ed i riti di un popolo che ha attraversato secoli e paesi diversi. In ogni piatto c’è l’Europa orientale e la Spagna, il Mediterraneo e il freddo del centro Europa, il colore caldo l’Africa del nord e l’anima speziata del Medio Oriente. Ogni molecola gastronomica è un ricordo stratificato dall’influenza del tempo e dei luoghi. In ogni pietanza c’è la storia delle persone, del passato antico e forse di un futuro edibile fatto di mille sperate bontà. Ognuno prende e mette del suo. In ogni casa ebraica si seguono precetti antichi e si mette un pizzico della propria esperienza. La challah è il pane tradizionale dello Shabbat e delle feste. È il profumo della celebrazione e anche se ognuno la glorifica a modo proprio, quel pane, fatto a quel modo, è irrinunciabile. Il suo odore croccante inonda la memoria gustativa come una novella gastronomica raccontata nella religiosità di una cucina solenne. Normalmente se ne preparano due filoni. Fatti a treccia, dorati dal tuorlo spennelato sulla crosta infornata, dolci, delicati e soffici. Si spezza il pane e la festa ha inizio. E sempre di pane, anche se non lievitato, si compone un altro pezzo del ricordo nutritivo degli ebrei. Pane azzimo, fatto di farina e di acqua. Impastato con fatica e consumato nel periodo di Pesach, la Pasqua ebraica. La sera del Seder, quando la famiglia si riunisce per festeggiare, si preparano i “knaydelach”, una specie di versione kasher dei canederli. Impastati con uova, grasso d’oca, prezzemolo e pepe fino a formare una polpettina da cuocere nel brodo, ovviamente di pollo. Meglio della penicillina.
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