Golem. I bambini di via Panska

Giuseppe Burschtein

01/07/2010

Ricontrollò che tutti avessero almeno un giocattolo e una bottiglia d’acqua e si mise in testa a quella fila indiana. Due a due, per mano, come si disponevano sempre per andare in refettorio. Dieci, venti, cento bambini. Zazzere e riccioli che si perdevano a vista d’occhio sul marciapiedi di via Panska. Aiutò i più piccoli a tirarsi su le maniche e pregò i più grandini, quelli di nove e dieci anni di iniziare a cantare. Partirono così, col passo preoccupato dentro una giornata afosa di quell’agosto del ’42. Varsavia, alle spalle continuava a morire e intorno a loro solo soldati che urlavano in una lingua che faceva paura. Janusz Korczak, in testa a quel plotone di esserini meravigliosi e microscopici, si schiarì la voce e si unì al coro. Era la filastrocca di sempre ma in quell’occasione gli sembrò solenne come un inno nazionale. Dignità, ecco ciò che li accompagnava. Quel senso di profonda onorabilità che sanno esprimere i bambini anche quando giocano sguaiati. L’immensa rispettabilità del pensiero dei suoi ragazzi. Persone piccole alle quali aveva dedicato la vita, lo studio, il lavoro. Quella sua passione per la libera espressione. Ecco cosa aveva voluto insegnare loro: ad essere liberi. A non rinunciare alle proprie capacità, a dar seguito alle proprie forze, le proprie vocazioni. E anche lì, all’orfanotrofio del ghetto, che dirigeva, era riuscito a mettere in pratica le sue teorie. Con grande successo. Lo si vedeva dallo sguardo brillante dei suoi allievi e dalle intelligenze che via via si facevano strada ed emergevano da quelle testoline come l’acqua di un fiume sotto i sassi. Liberi anche se prigionieri. Liberi con la mente. Per il suo piccolo mondo aveva scritto romanzi e opere pedagogiche ed era divenuto professore di chiara fama. Ma ora era tutto cambiato. Il suo cielo costellato di sorrisi era ora dipinto di piccole stelle gialle cucite sui vestiti. L’allegria aveva ceduto il posto alla paura, il vuoto, il niente. Korczak e i suoi ragazzi ripetevano sottovoce le parole della filastrocca come avevano fatto mille altre volte. Ora mentre camminavano verso la stazione. Montarono su un treno dai colori morti destinato a Treblinka. Era il 5 agosto del ’42 e il mondo finì.

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