“Oggi è il 5 febbraio del 2019 e io compio 14.746 giorni. A questo punto non so se parlare di calcolo o di scoperta ma le cose stanno così: io e mio padre abbiamo solo 13 giorni di differenza. Le nostre età stanno per combaciare. Meno di due settimane e saremo coetanei. Il giorno in cui io e lui finalmente ci rincontreremo, quando le nostre due linee temporali avranno la stessa lunghezza, è il 18 febbraio del 2019”. Il romanzo d’esordio di Salvatore Toscano, “Gli stupidi e i furfanti” (Baldini+Castoldi) è il frutto di questo elaborato calcolo; elaborato per ciò che va a smuovere in testa e cuore al protagonista. Racconto totalmente autobiografico, elaborazione fin troppo rinviata di un lutto, che inizia con la constatazione da parte di Salvatore, voce narrante, di essere giunto (mancano solo un paio di settimane) alla stessa età in cui suo padre era morto improvvisamente di infarto, mentre giocava una partita di calcio. Ma non è solo la coincidenza di calendario a far decidere a Salvatore di ripercorrere, accogliere finalmente tutto il rimosso di anni, ricordi, sentimenti. Può farlo ora perché, trattandosi comunque di una questione d’amore, ha la persona giusta, la donna che ama, per poter affrontare la memoria e lo struggimento di quel dolore. Lei ha titolo per esserne partecipe: “Forse sei arrivata da me anche per questo, per darmi una possibilità concreta di smetterla con gli sprechi, per spingermi a meritare ognuno dei 13 giorni che mi restano da vivere riportando alla luce parole che nascondo da più di trent’anni.” Prende così il via un diario a posteriori cadenzato sui tredici giorni che mancano a quando padre e figlio potranno dirsi coetanei. Un ininterrotto monologo per rievocare oltre trent’anni di un’assenza, e quanto quell’assenza ha provato a risarcire. Cose, persone, emozioni: il primo scudetto vinto dal Napoli nella stagione 1986-1987, la macchina telecomandata regalatagli il primo Natale senza suo padre, il primo taglio di barba privo di istruzioni paterne. Poi, ormai adulto, la lettura delle pagine drammatiche e stranianti di Antonio Moresco; la musica di Mark Knopfler e dei suoi Dire Straits, magari in perfetta sintonia con l’esasperata solitudine dell’uomo di On Every Street alla ricerca dell’anima gemella. E ancora libri, musica, opere d’arte, giorni, attimi, occasioni mancate si assiepano in questo singolare, intenso countdown che porterà a riallineare due esistenze nel punto dove la fine può combaciare con un nuovo inizio. E il titolo del libro cosa c’entra in tutto questo? È tratto da una frase che leggiamo in “Memorie dal sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij: “Chi vive oltre i quarant’anni? Rispondetemi sinceramente, onestamente. Ve lo dico io, chi vive: gli stupidi e i furfanti.”
***
Che cosa ricordo di lui?
Il naso. Sono sicuro che nessuno lo ha dimenticato. Papà aveva un naso leggendario, come quello di Totò. Era tutto storto per una qualche botta presa giocando a pallone e dominava sulla faccia come un obelisco su una piazza, come uno scarabocchio su una pagina bianca.
I sette re di Roma che lui con pazienza mi insegnò a elencare. Trovò il modo di inciderli in qualche zona profonda dentro di me, e da allora, almeno loro, non se ne sono più andati.
Il gelato allo Chalet. Forse ero troppo piccolo e nella memoria le proporzioni appaiono sballate, ma ricordo giganteschi contenitori in plastica pieni di gelato alla nocciola, alla fragola, al cioccolato, presi allo Chalet, il bar davanti alla stazione della circumvesuviana di Pomigliano d’Arco.
Mio padre passava prima dal suo amico Vittorio il giornalaio: forse lo chiamavano così per distinguerlo da Vittorio il panettiere, o forse era tutt’uno con il lavoro che svolgeva e non c’era altro modo di riferirsi a lui. L’edicola stava proprio all’interno della stazione e straripava di meraviglie dall’odore acidulo di tipografia misto a fumo di sigarette e polvere smossa dai piedi dei pendolari.
Papà mi portava in quell’antro semibuio e restava a chiacchierare per un po’, giocava una schedina, comprava qualche fascicolo o un paio di pacchetti di figurine per me. Intanto io, con un orecchio sempre attento ai discorsi dei grandi, vagavo tra la biglietteria e la banchina a cui si accedeva salendo una piccola rampa di quattro o cinque larghissimi scalini identici a quelli su cui siedono i mendicanti a chiedere l’elemosina davanti alle chiese.
Impalcature di un legno chiaro, quasi giallo, puntellavano mura e soffitti, come un esoscheletro spuntato intorno e dentro l’edificio dopo il terremoto del 1980. Le grosse travi cilindriche, che sembravano provenire da un western di Sergio Leone, ovviamente servivano per impedire il crollo della struttura, ma con il passare degli anni erano diventate qualcosa di diverso: diari sentimentali su cui ragazzi poco più grandi di me scolpivano nomi, frasi, disegni, incidevano verità primitive, senza fronzoli, senza pudore, esibendo gioie e tormenti elementari, testimoniando la temperatura e l’umore di una generazione solo in apparenza spensierata.
Ricordo il fracasso festoso del treno in arrivo nella sera, la frenata stridula, le porte che si aprivano con uno sfiato, la stazione deserta invasa all’improvviso da gambe che si muovevano velocissime, dal vocio caotico composto da conversazioni iniziate in chissà quale punto del viaggio e che poi proseguivano anche lì sulla terraferma, da saluti frettolosi di uomini e donne che finalmente tornavano a casa dopo una giornata che ‒ dalle posture un po’ curve di quasi tutti ‒ mi veniva spontaneo immaginare grigia e faticosa. Qualcuno si fermava a prendere un giornale o altro all’edicola, ma nel giro di pochi secondi tutto tornava immobile e silenzioso come se fosse scoppiato uno di quei temporali improvvisi che subito si esauriscono.
Anche se da un lato c’erano ancora mio padre e Vittorio il giornalaio, io per qualche secondo ero costretto ad affrontare il panico di ritrovarmi tra una folla di estranei per poi attraversare l’immediata esperienza dell’abbandono, passando dalla frenesia al vuoto in quel vasto spazio cavo riecheggiante.
A volte restavamo lì per mezz’ora: sfregavo la punta dell’indice sulle zone più scure e nodose delle travi di legno tracciando minuscoli cerchi invisibili, nel frattempo l’atrio si riempiva e svuotava a ondate con i treni che riportavano a Pomigliano quelli che lavoravano a Napoli o a Nola. La piccola stazione di provincia sembrava un muscolo cardiaco che pompava corpi nell’apparato circolatorio della città, mentre io restavo incagliato nella penombra per un intervallo che appariva infinito, in bilico tra noia e stupore, finché non mi aggrappavo alla mano di mio padre che riportava anche me a casa.
Le pizze. Per l’asporto non le mettevano in quelle scatole piatte di cartone che usiamo oggi ma in contenitori di plastica senza coperchio che venivano incasellati l’uno sull’altro: la mozzarella filante si attaccava dappertutto, bisognava scollarla con le dita ustionandosi i polpastrelli e mangiarla così, tutta azzeccosa e magari piena di microscopici residui cancerogeni. Inutile dire che credo non ci sia niente di più buono al mondo della mozzarella, soprattutto quando si scioglie e bisogna raschiarla via dall’interno di piatti e pentole.
La multa. Due o tre carabinieri, o forse vigili urbani, gli fecero una multa sulla strada di ritorno dal lavoro. Quella volta stavo con lui. Aveva effettuato un sorpasso dove non era consentito. Ricordo benissimo la sorpresa e lo sconcerto di vedere qualcuno che esercitava un’autorità su mio padre, che lo rimproverava come se fosse un bambino. Ricordo che avrei voluto trovare il modo di consolarlo perché, anche se non ero riuscito a sentire per intero la conversazione con l’uomo in divisa, mi ero accorto che papà gli aveva rivolto dei gesti imploranti senza ottenere perdono. Immagino di essere stato un figlio davvero irritante perché da quel momento in poi tutte le volte che rifacevamo lo stesso tragitto in macchina gli chiedevo se ricordava il punto preciso in cui doveva stare attento a non sorpassare.
La clinica. Lui faceva il contabile, lavorava nell’amministrazione di una clinica psichiatrica, lo chiamavano tutti ragioniere, anzi: «Raggiuniè!» Passava le giornate tra pazzi e dottori. Spesso ci andavo insieme a lui: ricordo un giardiniere che aveva un nome che mi faceva pensare alle fiabe – Gavino –, e poi le signore della cucina, le infermiere, certi grossi scaffali pieni di faldoni, i caloriferi giganti, il collega che faceva finta di acchiappare le mosche per poi mangiarsele. Prima di dirigerci verso casa passavamo in un capannone rumorosissimo, non lontano dalla clinica, dove sferragliavano i macchinari di una fabbrica di materie plastiche: ricordo solo l’odore prepotente e piacevole di plastica calda che quasi mi stordiva come quello della benzina.
Quando giocavamo a pallone. Lui mi faceva dei tiri in porta e io paravo. Per concentrarmi ripetevo ad alta voce: «La palla la palla la palla». Lui che da ragazzo era stato un calciatore fortissimo mi disse: «Se vuoi capire dove va la palla devi guardare il piede, non la palla!» E allora io ripetevo: «Il piede il piede il piede».
Quando nel 1984 lui e mamma hanno preso la decisione un po’ folle di lasciare che io, a cinque anni, scegliessi il nome del mio fratellino che stava per nascere. Per tutta la durata della gravidanza mi ero fissato su Gianluca poi, quasi senza motivo, cambiai idea all’ultimo momento: Fabio, mio fratello si chiama Fabio.
Quando di sera mi infilavo tra il suo fianco e il bracciolo della poltrona a guardare la televisione. La corrida. E Corrado che faceva partire la pubblicità dicendo sempre la stessa battuta che mio padre magicamente anticipava di qualche secondo per poi godersi il mio sproporzionato stupore da bambino un po’ fesso: «Non finisce mica qui…»
Quando ogni mattina scendevamo in garage a prendere la macchina ‒ nei miei primi anni di vita una Ford Fiesta rossa, nei suoi ultimi anni di vita una Ford Fiesta verde metallizzato ‒ e lui la lasciava accesa a folle per un tempo infinito in modo da permettere al motore diesel di scaldarsi a sufficienza.
Quando mi ha consigliato, quasi con solennità, di non fumare mai, nonostante tutti i suoi coetanei fossero tabagisti famelici, nonostante lui stesso tenesse sempre in tasca un pacchetto di sigarette Futura. Me lo ricordo benissimo quel pacchetto per metà bianco e per metà dorato. Allora potevo distinguere gli adulti della mia famiglia dalle marche di sigarette che preferivano: zio Renato le MS, zio Raimondo le puzzolentissime Nazionali, zio Pasquale e zio Gaetano le Marlboro, zio Enzo le Diana, le zie invece le rendevano irriconoscibili nascondendo i pacchetti dentro elaborati portasigarette in cuoio. Comunque, almeno per quanto riguarda questo aspetto, sono riuscito a diventare un figlio di cui lui potrebbe essere fiero: non ho mai fumato né mai fumerò in vita mia.
Quando l’ho spaventato nella notte. Si tratta di un episodio bizzarro che diventò un aneddoto divertente per i miei parenti ma che faccio fatica a spiegarmi. Una notte mi sveglio per fare la pipì e mi accorgo che il bagno è occupato. Anche se la luce è spenta capisco che dentro c’è mio padre. Non so in base a quale logica idiota mi nascondo su un lato, vicino alla porta, con la schiena contro il muro come un ninja che tende un’imboscata, e lo aspetto trattenendo a stento le risate per ciò che sto per fare. Quando esce lancio un grido e gli salto addosso. Lui prende un tale spavento che ‒ ammetto che sto ridacchiando anche adesso mentre scrivo ‒ comincia a prendermi a schiaffi e calci fino a riportarmi a letto nella stanzetta palleggiando per tutto il tragitto con il mio corpo che rimbalza qua e là. Non mi aveva mai picchiato, immagino che quella potrebbe essere considerata la prima e ultima mazziata ricevuta da lui ma non l’ho mai vista così: c’è poco da dire, ero colpevole. Secoli dopo, zia Anna, la sorella di papà, mi disse che quella volta l’avevo quasi ammazzato prima del tempo.
Quando ho preso la mia prima decisione da adulto e ho scelto di non andare al suo funerale. Ma questa è una storia molto più lunga e non sono ancora pronto ad affrontarla.
[da Gli stupidi e i furfanti di Salvatore Toscano, Baldini+Castoldi, 2024]
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