Gli spatriati, la generazione che ha pagato il prezzo dell’inedito

Luigi Oliveto

14/10/2021

Si parla spesso di loro, degli odierni quarantenni. Di quella generazione trovatasi in una terra di mezzo dove il passato prossimo era (è) ormai inservibile e il futuro indeclinabile. Costretti a dilatare oltremisura il presente, cincischiare spostando giorno dopo giorno la convenuta soglia della maturità. Ma anche bravi a inventarsi nuovi modi di essere e di stare al mondo, ora che il mondo non corrisponde più ai rassicuranti schemi ideologici, morali, economici, emotivi, entro cui erano cresciuti i loro genitori. I quarantenni di oggi sono dunque degli “spatriati”, come li ha chiamati Mario Desiati nel suo ultimo romanzo dove i due protagonisti incarnano contraddizioni, incertezze, il nuovo e l’insolito di una intera generazione. Ecco dunque Claudia, estrosa, intraprendente, che veste da uomo e che preferisce Londra, Milano, Berlino alla asfittica vita di provincia. Non così per Francesco, ancorato a certi dogmi (ma non immune dal dubbio), comunque più arrendevole, posato. Si sono conosciuti al liceo, dove lei già si mostrava diversa da tutti. A chi le chiedeva “perché non sei come noi” rispondeva che “è già difficile essere uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri”. E proprio di lei resta subito attratto Francesco, adolescente solitario e insicuro, che non sa ancora niente di sé, che bada bene a tenere nascosto ciò che era stato fino ad allora, “terrorizzato che potessero giudicarmi inadatto”. Claudia e Francesco diventano adulti insieme, le loro vite divergono e continuamente si incontrano. Opposti che si attraggono, ma soprattutto si interpellano vicendevolmente, necessari l’uno all’altro per definire sé stessi rispetto alla vita, alle geografie in cui debba viversi. Geografie allargate e mobili come quelle che chiedono d’essere cittadini del mondo, o quelle mentali per dare nuovi luoghi a sentimenti, sessualità, relazioni.
La vicenda di Claudia e Francesco è metafora di tutto questo, di una generazione che ha pagato (sta pagando) il prezzo dell’inedito, ma che – certo, di necessità – del mutamento può dirsi pioniera.
 
***
 
Quando un fronte d’aria fredda incontra a terra una massa d’aria calda, quest’ultima si alza al cielo. Nascono i temporali. Pioggia e fulmini, acqua e fuoco. Non ho mai capito chi tra i due fosse il caldo e chi il freddo, ma mi ritengo fortunato di aver incontrato il mio fronte opposto in Claudia Fanelli, la spatriata, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o forse, nel caso che ci riguarda, i liberati.
La notai la prima volta nell’atrio della scuola e desiderai i suoi capelli rossi, la pelle lunare, il naso pronunciato. Aveva l’aria d’essere piovuta lì da un altro mondo, più evoluto e illuminato.
Mi chiamo Francesco Veleno, sono il figlio unico di Elisa Fortuna e Vincenzo Veleno, due ex atleti dilettanti, che si sono innamorati durante una puntata di Giochi senza frontiere e per tutta la mia infanzia mi hanno cresciuto con l’idea che li avrei riscattati dal misterioso incidente di avermi messo al mondo. Ancora ero lontano dal sapere che molte relazioni vanno avanti, come avrebbe detto Claudia, per «ragioni di Stato». E sempre grazie a lei avrei capito che non esistono ragioni di Stato così stringenti da obbligare tre persone tanto diverse a vivere insieme, a meno che non si sconti una pena. La corte che aveva condannato Elisa e Vincenzo a rimanere insieme nonostante l’evidente disamore risponde alla crudele legge del quieto vivere, aspro codice umano che nei luoghi più piccoli richiede rigore e assoluta severità.
Prima di Claudia, la realtà era quella che mi raccontavano e non quella che vedevo. Facevo parte del novero di quelli che si lasciano spingere dagli altri, dagli eventi, dalle prescrizioni, dai pregiudizi. I coniugi Veleno mi spingevano verso una vita senza smottamenti, tranquilla, il minimo necessario per non soffrire. A loro, in fondo, era andata bene così.
Lui, professore di educazione fisica – aveva anche praticato brevemente la scherma insieme a mia madre –, aitante, spregiudicato, girava con una Beretta M9 regolarmente denunciata da cui non si sarebbe mai separato. Non vedevo ancora nei maschi bianchi di mezza età armati di pistola le vanaglorie sessuali perdute.
Mia madre era infermiera nell’ospedale di Martina Franca. Per un breve periodo della mia infanzia mi aveva chiamato «Uva nera», perché a Martina tutti coltivano uva bianca verdeca, asprigna, da cui fanno un vino secco che rende brillanti con due sorsi. E lei invece aveva fatto un figlio con l’incarnato olivastro, bruno, come quello dei contadini alla fine dell’estate o i saraceni delle antiche cronache. Con l’uva nera si fa il Primitivo o il Negramaro. Vini da offuscamento della ragione. Tenerlo presente al momento delle decisioni impulsive della mia vita sarebbe servito.
Nessuno in famiglia aveva i miei tratti. Nessuno scuro come me, nessuno con un’attaccatura dei capelli così alta, la fronte libera e il fardello della pigrizia che mi inchiodava sul divano a leggere giornalini insulsi. Durante il pomeriggio spesso ero solo, mia madre viveva praticamente in ospedale, a volte spariva per due o tre giorni di seguito. Mio padre dopo le ore a scuola si perdeva nei bar di paese millantando avventure e rievocando il suo passato da atleta, per tornare con i vestiti stropicciati e una smorfia allusiva, come di chi ha compiuto un’impresa e non vede l’ora di raccontarla. Ma non la raccontava mai. Forse perché io avevo paura di chiedere o forse perché credeva che non avrei potuto capire.
Erano diversi, mia madre e mio padre, e lo erano anche nei tempi verbali quando si rivolgevano a me. Elisa era donna del presente, spesso in prima persona plurale: «Usciamo». Mio padre non conosceva che il tempo passato e ogni tanto il tempo futuro quando parlava di me. Abbarbicato ai ricordi, a un elenco di aneddoti gloriosi per lui, noiosi per tutti gli altri.
Su una cosa Vincenzo Veleno ed Elisa Fortuna si ritrovavano in una miracolosa convergenza: non avevano frequentato un solo giorno di liceo classico, ma ne avevano il rispetto che si porta per un’entità irraggiungibile. Aveva formato le menti dei loro capi, medici primari, presidi, provveditori. Tutte teste uscite dal liceo di Martina Franca. Dicevano che con il latino mi si sarebbero aperte le porte, e che tra i banchi avrei incontrato i figli delle famiglie importanti. Consideravano quel percorso la cosa piú opportuna. Gente che conosce perfettamente la verità degli altri ma non la propria.
 
[da Spatriati di Mario Desiati, Einaudi, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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