Giuseppe Berto, anonimo veneziano afflitto dal mare oscuro

Massimiliano Bellavista

20/12/2019

Non vogliamo parlarvi de “Il male oscuro”. Molti conoscono questo romanzo o almeno il titolo. È di un altro titolo, che quasi nessuno ormai associa al suo autore, che vogliamo parlarvi. Nel 1958 Giuseppe Berto aveva 44 anni. Non esisteva la moda americaneggiante della scrittura come terapia. E infatti per lui scrivere non fu terapia, ma pura riabilitazione perché grazie a questo, a poco a poco, emerse dall’abisso di nevrosi e depressione in cui era caduto come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti. Nel 1964 “Il male oscuro”, il suo romanzo più noto, vide la luce e fu per lui una rivincita. Infatti, dopo il fortunato esordio de “Il cielo è rosso” del 1946, scritto in prigionia a Hereford (Texas), che narra la storia complessa e travagliata di una banda di ragazzini sopravvissuti al bombardamento di Treviso, avvenuto il 7 aprile 1944, era stato emarginato dai colleghi e dalla critica. Ci aveva anche messo del suo, ma sostanzialmente era colpevole di essere politicamente diverso e anche di vendere troppo. La storia di 18 anni difficili.
 
E dopo? Scrivendo non è che il male sparisca del tutto. Scrivere è un eccitante, non un anestetico e per lui il dolore rimane dolore, ma non si trasforma più in angoscia». E poi aggiunge, in un’altra intervista «Sono ancora malato e credo che non guarirò mai. Però sono guarito per quel tanto che volevo disperatamente guarire, ossia non ho più paura di scrivere. Si, ma dopo “Il male oscuro” ci sono di nuovo anni di silenzio, di incertezza. Poi accade un fatto singolare. Un attore famoso, Enrico Maria Salerno, all’esordio come regista gli propone di realizzare una sceneggiatura. È il 1966. E lui gli risponde due cose, tutte e due quasi impensabili oggigiorno, dove tutte le professioni sono incasellate e gli steccati tra i vari generi tanto delimitati da essere quasi asfissianti. Per prima cosa avrebbe scritto un unico, lungo dialogo, non una sceneggiatura. In secondo luogo il dialogo sarebbe rimasto di sua proprietà, siccome vi trovavo fermento più per un lavoro teatrale che per un lavoro cinematografico. Insomma Berto risponde a Enrico Maria Salerno che avrebbe scritto quella storia, ma non gliela avrebbe fornita nel modo che voleva lui e, come se non bastasse, se la sarebbe anche tenuta per sé perché in fondo credeva servisse più a lui. E succede effettivamente così. Il dialogo diventa opera teatrale (1976) e poi assume la forma definitiva di romanzo breve. Nell’omonimo libro del 1971, si legge infatti una cosa molto singolare: “L’autore avverte che, per impegni da lui presi con la Società produttrice del film Anonimo Veneziano, questo lavoro non potrà essere rappresentato in pubblico prima dell’Ottobre 1973”. Insomma quella che Berto scrive non è una semplice sceneggiatura. Non lo è mai stata, anche prima di essere scritta. Nasce così un insolito capolavoro, che tutti associano al film, molti alle musiche di Stelvio Cipriani dove oboe, flauto e violini sono gli ingranaggi di un motore poderoso e perfetto che spinge la storia verso l’inevitabile finale, ma pochi invece conoscono al suo vero padre, ovvero proprio Berto.
 
Ma la storia non finisce qui. Questo esile libretto rappresenta molto curiosamente l’opera su cui Berto ha lavorato cronologicamente di più: dal momento che accettò di scrivere quel film, non si fermò mai. In primis perché, quando scrisse questa singolare storia a due voci Io immaginavo che LUI sarebbe stato interpretato dallo stesso Salerno, e LEI da un’attrice non più giovanissima, né bella, ma molto sensibile. Una tipo la Thulin, insomma, o Emanuelle Riva o la Girardot. E invece quattro anni dopo, il tempo che Salerno impiega a conquistare la fiducia di un produttore interessato a finanziare il film, si trova davanti Tony Musante e la bellissima ed elegante Florinda Bolkan. Lei insomma non può più essere una donna di provincia, sfiorita e insoddisfatta, ma diventa una donna giovane, bella ed elegante, che vive a Milano in compagnia di un ricco industriale.  Ma Berto non si ferma neanche dopo il successo del film, neanche in seguito alla brillante messa in scena teatrale a Parigi, tanto è vero che “Anonimo Veneziano” in un certo senso si può considerare la sua ultima fatica, assieme a “La Gloria” del 1978, anno della sua morte.
 
La storia, semplice nei suoi tratti essenziali, perfino banale (al punto che la si può raccontare tranquillamente a chi deve ancora leggere il libro senza danneggiare minimamente il suo piacere), è quella di uomo e di una donna che si rivedono a Venezia, su invito di lui, a otto anni di distanza dalla fine del loro matrimonio. Ma il matrimonio, quando si scrive la storia, non si può risolvere come oggi. Lei è andata via, lui l’ha annientata psicologicamente mettendola nelle condizioni di fare quel passo traumatico, ma secondo la Legge se la può riprendere come e quando vuole, perché il loro matrimonio è sempre valido. E come se non bastasse, si può riprendere anche Giorgio, il loro unico figlio, che vive a Milano con il nuovo facoltoso compagno della moglie, e praticamente non lo conosce. Lui è un musicista squattrinato, un manipolatore dal carattere schizofrenico, un’anima nera a tratti ancora attaccata alla vita. Lui, lei. La particolarità è che non ci sono nomi in questa storia. Sono un archetipo maschile e uno femminile, caricati di un uguale potenziale elettrico. Se i personaggi diventano archetipi i nomi non hanno più alcun significato. Ci sono però pochi scrittori in grado di frugare in questi archetipi, cavandoci fuori qualcosa di buono. Quando uno scrittore parla di archetipi, è sicuramente uno scrittore maturo, ma quella può essere la sua fine (la caduta inesorabile nella banalità) o la sua definitiva consacrazione. Cercate conferma di questa affermazione in Cormac McCarthy, nel Saramago di “Cecità” e soprattutto nell’“Everyman” di Philip Roth. Inoltre ogni archetipo ha bisogno di una scena in cui comparire. Una scena piatta, minima dove possa esaltarsi. È lui infatti il protagonista assoluto, questa scena deve essere semplice e minimale, in sostanza deve esserci in essa assai di più ciò che lui ci vede o ci immagina rispetto a ciò che c’è realmente. Ogni archetipo è infatti l’essenza sostanziale delle cose sensibili. Figurarsi quando gli archetipi in gioco sono ben due.
 
Questa scena piatta è la stazione di Venezia un mattino di Novembre, non molto freddo, ma umido. Anzi, è Venezia stessa, ma non la Venezia che tutti ci immagineremmo, quella ricca e opulenta che mai accetterebbe un ruolo da comparsa, bensì una Venezia spoglia, informe, di cui è rimasto solo il nome, fatta di grigiore, gondole a riposo per l’inverno e campielli deserti, che non fa che svuotarsi progressivamente per specchiarsi tutta, equamente, nei protagonisti. Metà in Lei, quella dei ricordi di una relazione burrascosa, ma molto sensuale e a tratti anche felice, ferma a otto anni prima. Metà in Lui, la città presente, una sorta di prigione sorda e solitaria, rischiarata solo dall’amore per la musica.  Quella musica che lo ha tradito, che non lo ha reso un celebre musicista come sperava, ma che adesso gli concede un’ultima chance: quella di registrare, insieme a giovani musicisti con cui ha formato un’orchestra da camera, un concerto in re minore di un compositore settecentesco rimasto per lungo tempo anonimo, ma di cui ora si conosce il nome, Alessandro Marcello. È una Venezia che inganna, l’acqua dei suoi canali non è affatto stagnante ma, con giochi di rimandi circolari sotterranei come correnti ci porta lontano, verso riferimenti letterari diretti, come il Thomas Mann de “La morte a Venezia”. Ma sono stati citati, e con tutta probabilità legittimamente, il John Ruskin de “Le pietre di Venezia” o, più nell’ombra il Saul Bellow di “Herzog”, quasi coevo a quest’opera.
 
LUI Grazie che sei venuta
LEI Il mio avvocato mi ha detto che mi conveniva
LUI Se vuoi, tra cinquantotto minuti c’è un diretto che ti riporta a Milano. Marciapiede sette.
LEI Se ti bastano, cinquantotto minuti
LUI No
È geniale questo uso degli orari del treno per Milano, che si ripete ad ogni snodo cruciale del dialogo. Ogni passo che si fa verso la conclusione, è anche un passo che si fa in direzione di una dura verità. E se Lei non fosse pronta, Lui le offre più volte la possibilità di partire, di voltare le spalle e allontanarsi, col prossimo treno.  Fino alla rivelazione finale.
 
Torniamo agli archetipi. Ogni archetipo è un po’ alfa e un po’ omega, anche se in letteratura si è generalmente assai più attratti dall’omega: il personaggio nella maggioranza dei casi c’è a prescindere, non si sa come, non si sa da quanto, e l’autore di solito è più interessato a descrivere la fase terminale della sua parabola. Una faccenda insomma che ha quasi sempre qualcosa a che fare con la morte. Lui è malato di tumore (come nella realtà il padre di Berto, come lui stesso si immaginava nelle sue fobie. Come di lì a poco purtroppo gli accadrà poi davvero). Per prima cosa, una mattina perderà la vista. Poi verrà il resto. Presto. Su questa rivelazione la storia ruota bruscamente su sé stessa come una porta sui cardini.
LUI …il fatto è che sto morendo. Sul serio
LEI Che significa. Tutti stiamo morendo.
LUI Ma io morirò presto. Cinque o sei mesi, pressappoco. Hanno detto i medici. E ormai sono cinque mesi che l’hanno detto.
 
Sull’onda di questa rivelazione Lei gli chiede di portarla a casa sua, e assistere all’inizio di quell’ultima registrazione, quella in cui finalmente, tardivamente, può dirigere un’orchestra, quella che Lui vuole lasciare come segno della sua esistenza, del suo passaggio sulla terra, a suo figlio. Per non essere anche Lui un Anonimo dimenticato ma un’anima incrollabilmente viva e presente per chi ancora ama.
LEI Portami a casa tua…
LUI Che senso avrebbe?
LEI. Noi non abbiamo mai fatto le cose che avessero un senso. Portami a casa tua.
 
E le ultime pagine sono le più dense, dove c’è tutto lo scrittore ai suoi massimi livelli. Quando coi musicisti parte la registrazione nello studio improvvisato in cui Lui ha trasformato da tempo il suo appartamento, tutto è già deciso; la diade si scompone definitivamente, il destino di Lei è affidato al direttissimo delle nove e cinquantotto, metafora di un destino già scritto (infatti il treno non aspetta nessuno). Il suo nemmeno ad una parola, ma solo al suono del suo oboe, fino alla dissolvenza al cenno di lui, gli archi attaccano all’unisono, in crescendo. Ogni luce si spegne, rimangono illuminati solo i ragazzi dell’orchestra, con lui al centro. Poi attacca lui…Ogni altra luce si spegna, e rima e illuminato soltanto lui. Poi anche lo spot che lo illumina si spegne, il palcoscenico è completamente buio. Ma il suono dell’oboe continua, anche dopo che il sipario si è richiuso.  Il suono della musica, come quello di una buona storia, buca anche il buio del destino.
 
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Massimiliano Bellavista

Massimiliano Bellavista
Massimiliano Bellavista è consulente di direzione, blogger (www.thenakedpitcher.com) e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Scrive una rubrica fissa per la rivista stroncature.com. Tiene regolarmente seminari di scrittura e in merito alla valorizzazione ed alla comprensione del libro antico come bene letterario e culturale. A Siena anima la scuola di scrittura Recensio. Riguardo alle sue opere di narrativa, poesia e management, pubblicate in italiano ed in inglese, tra le più recenti ricordiamo: Le reti d’impresa (Franco Angeli, 2012); Anatomia dell’invisibile (Tabula Fati, 2017); L’ombra del Caso (Il Seme Bianco 2018) e The Naked Pitcher (Licosia 2018); Dolceamaro (Castelvecchi 2019); Marketing e management degli impianti sportivi (Azzurra 2019); Vertical Farming (Licosia 2019)
 
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