«Mio fratello dice che le tette finte possono esplodere in aereo».
L’estate era agli sgoccioli. Settembre era arrivato a tradimento e, la cosa peggiore, senza che nessuno avesse avuto una ragazza. Su quella cosa delle tette, poi, ci stavamo ragionando da un po'. Il fatto che potessero esplodere sembrava preoccupare sul serio Lele.
«Tuo fratello è un maniaco» gli disse Teo. «E noi dobbiamo restare concentrati. Smetti di pensare a Pamela Anderson».
Lele mi guardò, poco convinto.
«Tranquillo» gli dissi sottovoce. «Io non credo che esplodano».
La missione era stata ideata da Teo. Un’esplorazione in un luogo fantasma. Una vecchia fabbrica di concimi chimici chiusa da anni. Si trovava vicina alle case dello Scalo, ma tutta l’area era circondata e chiusa da un cancello. La gente diceva che là dentro c’erano veleni e materiali inquinanti e pericolosissimi. Ma la ditta era fallita e adesso nessuno aveva idea di cosa sarebbe accaduto a tutti quei fusti di acidi. Il babbo di Teo aveva lavorato là dentro e ci aveva raccontato che l’area era composta da oltre venti edifici. Una vera città morta. Ma non ne sapevamo molto di più. Teo diceva che il vecchio non c’aveva più messo piede. E ogni volta che ne parlava gli venivano gli occhi lucidi. Per cui, non gli aveva chiesto altre cose. Era una mattina assolata. Il rumore delle ruote delle biciclette sulla strada sterrata. Pedalavamo affiancati, come i motociclisti dei film che attraversano l’America sulle Harley Davidson. Guardavamo le nostre ombre proiettate lungo la strada, tra sassi, erba alta e cannicci.
Io indossavo una mascherina per gli sci, perché avevo avuto da poco un problema all’occhio e mia madre mi mandava in giro con quell’affare che mi aveva comprato quando eravamo andati a sciare sull’Amiata. Che poi non c’era neve e avevo passato la giornata a spingere in salita uno slittino mezzo scassato. Lele aveva una maglietta degli Iron Maiden di una taglia troppo stretta per lui, con uno sbaffo di cioccolata lasciato da una Girella. Teo indossava una felpa con il cappuccio. Faceva un gran caldo, ma lui se ne stava sempre là sotto. Magari era in calzoncini, ma stava sempre là sotto. Era un po' una fissa. A scuola lo avevano bocciato e lui si era infilato là in segno di protesta.
Il cancello di ingresso si trovava nella piazza della stazione ferroviaria. Attraversammo in bici il parcheggio e gli arrivammo proprio davanti. Era alto, pesante e arrugginito. Con una serie di cartelli sopra che dicevano più o meno tutti la stessa cosa. Non entrate.
«Brivido!» disse Lele, svuotandosi in bocca il pacchetto di Fonzies che si era portato in tasca fin lì.
«Non avrai intenzione di scavalcarlo» chiesi a Teo.
«C’è un passaggio nella rete di recinzione» disse lui. «Da quella parte».
Lasciammo le bici dietro un cespuglio di more, così nessuno le avrebbe notate e a nessuno sarebbe venuto in mente di venirci a cercare là dentro.
Ci inoltrammo tra le piante. Rovi, cespugli. Teo ci faceva strada camminando con attenzione su quello che sembrava un sentiero molto stretto. Era qualche metro davanti a noi.
«Merda!» urlò Lele. Si era graffiato a un braccio e aveva il rigo rosso del sangue fresco.
«Fai piano» gli dissi, «sennò è inutile che abbiamo nascosto le bici».
«Va bene» bisbigliò, «ma che modo demente di passare gli ultimi giorni di vacanze».
«Avevi altro da fare?» gli chiesi.
«Potevamo andare alla pista, che a quest’ora Debora e le altre vanno a pattinare».
«E allora?».
«E allora magari ci scappava qualcosa».
«Sì, certo, figurati…».
«Che ne sai…».
«Hai ancora le briciole di Fonzies addosso».
«È perché non avevo fatto colazione».
«E una macchia di cioccolata, di quando hai fatto colazione».
«Ancora parli? Con quell’affare in faccia che sembri Ciclope degli X-men. C’erano comunque più probabilità che ci scappasse qualcosa alla pista che stando qui come tre coglioni. Che poi è anche pericoloso. Mio fratello dice che…».
«Ci siamo.» Era la voce di Teo.
Scostai il ramo che avevo di fronte e lui era lì, davanti alla rete, che in quel punto aveva un buco.
«Vorresti passare da lì?» gli chiese Lele.
Lui non si voltò neppure. Afferrò la rete e allargò l’apertura. Si infilò dentro e con un movimento rapido fu dall’altra parte.
«Respiri bene?» gli chiese Lele.
«Come dovrei respirare?».
«Mio fratello dice che qui ci sono delle cose che fanno male a respirarle».
«Idiota, sono a un metro da te, stai respirando la mia stessa aria».
«Sì, ma sei dall’altra parte».
«E allora? Siamo ancora fuori dalla fabbrica».
Afferrai la rete e la allargai per far passare Lele.
«Merda» disse appena arrivato accanto a Teo, «ma come fai a non sentirlo? Qui l’aria è acida, ci farà sicuramente male».
«Puoi aspettarci alle bici, allora» gli disse Teo. Poi guardò verso di me. «Allora, vieni o no?». Mi sistemai la mascherina da sci sul naso, afferrai la rete per allargarla e passai dall’altra parte.
La vegetazione oltre la rete di recinzione era ancora più fitta. Dopo qualche minuto, in mezzo a rami secchi e una strana puzza di marciume, arrivammo a un muro.
«Ci siamo» disse Teo.
Costeggiammo il muro, passando attraverso altri cespugli, finché non arrivammo nella zona dell’ingresso, davanti al cancello, che avevamo aggirato. Eravamo dentro. Di fronte a noi si apriva la strada principale del complesso industriale, ai lati della quale sorgevano gli edifici di mattoni. Eravamo al centro della strada come in un film western.
«Brivido!» disse Lele. «È un posto pazzesco...».
«Che ti dicevo?» disse Teo.
«Sembra che ci sia scoppiata una bomba atomica» aggiunsi.
«Diamo un’occhiata, dai.» Teo ci fece segno di seguirlo.
Iniziammo a camminare in mezzo a quegli edifici. Dall’esterno del sito, era possibile vederne solo una piccola parte. Ora, invece, c’eravamo in mezzo. Erano alti, di un colore rossastro, con le finestre che sembravano tanti buchi. Nessuno di noi si aspettava un posto del genere. Avrebbero potuto girarci uno di quei film con gli zombi che si animano e iniziano a uscire e rincorrono i soliti sprovveduti che, in quel caso, saremmo stati noi.
«Entriamo qui» disse Teo, avvicinandosi a un’apertura.
All’interno lo spettacolo era ancora più pazzesco.
«Questo coso è più alto del mio condominio» dissi, guardando verso l’alto. Il soffitto era venuto giù in diversi punti. C’erano tutte delle impalcature di legno che forse servivano per i lavori della fabbrica. E c’erano dei piccioni che ci volavano attraverso.
«Sembra
Blade Runner» disse Lele.
Usciti dall’edificio, riprendemmo a camminare lungo la via principale. Nessuno di noi aveva idea di quanto grande fosse quel posto. Era davvero un paese. Mi ricordava il campo di concentramento che qualche anno prima mia nonna mi aveva portato a visitare, in Germania. Un po’ più lontano, sulla sinistra, c’erano dei capannoni di legno.
«Ehi!».
Era la voce di Teo. Mi voltai, ma solo in quel momento mi accorsi che ero rimasto da solo. Mi guardai attorno. Proveniva forse dall’edificio che avevo accanto. Passai attraverso la porta, stando attento a non calpestare i vetri che c’erano a terra.
«Questo è davvero incredibile!». Era la voce di Lele. Proveniva dall’altra stanza. Mi avvicinai ancora, passando da un'apertura, dove un tempo c'era sicuramente stata una porta, e li raggiunsi. L’ambiente era molto grande e c’era ancora il soffitto. Ma la cosa veramente assurda era quello che i miei amici stavano fissando proprio di fronte a loro. Un tavolino con una sedia. Sopra il tavolino una bottiglia di plastica, piena di acqua per metà, e una serie di scatolette di tonno vuote.
«Ma c’è un guardiano da queste parti?» chiesi.
«Nessuno» disse Teo.
«Potrebbe essere lo spirito di un operaio morto» disse Lele. «Tipo che magari è condannato a tornare sempre qua dentro per una maledizione».
«Come no» disse Teo, «e viene qui a mangiarsi le scatolette di tonno».
«E allora chi è?» chiese Lele, che continuava a frugarsi in tasca cercando un’inesistente bustina di Fonzies.
«Magari è un clandestino che si nasconde qui» dissi.
Restammo a guardare quel tavolino per alcuni minuti. Uscimmo in silenzio, e ricordo ancora quella strana sensazione che provai, come di essere entrato in casa di qualcuno senza aver chiesto il permesso.
«Dite che al bar della stazione li hanno i tramezzini al tonno?» chiese Lele.
«Andiamo a vedere gli acidi» disse Teo.
Entrammo in un edificio ancora più grosso del primo. Anche questo era in parte di pietra e in parte di legno. E c’erano degli enormi contenitori cilindrici. La luce entrava dalle aperture, nei punti in cui il soffitto aveva ceduto, e formava dei raggi che attraversavano l’ambiente, disegnando ombre contorte sul pavimento.
«Gli acidi sono là dentro» disse Teo, indicando i contenitori.
«Ma perché vuoi vederli?» gli chiesi.
«Siamo venuti fin qui, perché no?».
«Merda, ragazzi, quelli fanno male sul serio se li respiri» disse Lele, «e poi quella cosa che qui dentro c’è quel clandestino che si nasconde non mi piace. Potrebbe aver respirato questa roba ed essere diventato tipo uno di quei mostri mutanti. Non mi piace questa cosa».
«E allora torna indietro» gli disse Teo.
«Forse a questo punto dovremmo tornare indietro tutti» dissi.
«Siete dei vigliacchi».
«E tu stai dando di matto» disse Lele.
Teo si voltò e si avvicinò di qualche passo ai contenitori. Era magro, le spalle strette.
«Lui è qui che lavorava» disse, senza voltarsi. «Proprio in questo posto. Sembra passata una vita eppure non sono così tanti anni. Tornava sempre a casa per pranzo. Ed era contento. Eravamo tutti contenti. Mentre aspettavamo la pasta, giocavamo un po’. Mi sollevava con quelle sue braccia forti. Mi faceva volare in aria, ma mi sentivo sempre al sicuro, tra le sue mani. Adesso passa il tempo davanti alla televisione e ripete che gli immigrati ci porteranno via anche le case. È sempre incazzato. Non lo so, magari il fatto è che questi acidi sono tipo una droga e quando sei abituato a respirarli poi ti mancano, come l’astinenza».
Si voltò. Credo che sotto il suo cappuccio avesse gli occhi lucidi, anche se la mascherina da sci che indossavo non mi consentiva di vedere granché.
«Io questa cosa la voglio capire, perché quei giorni mi piacevano e mi mancano parecchio. E voglio sapere chi me li ha tolti».
Io e Lele restammo in silenzio. Era chiaro che a quel punto non ce ne saremmo andati, per nessun motivo. Nessun clandestino mutante avrebbe potuto impedirci di aiutare Teo a fare quella cosa assurda e senza senso. Non ci fu bisogno di dirlo. Teo capì. Tirò su col naso e ci sorrise. Per arrivare ai contenitori bisognava salire una scala a pioli e camminare su un ponteggio di legno che non prometteva niente di buono. Teo iniziò a salire sulla scala. Si muoveva lentamente, provava ogni piolo con attenzione. Sembrava che avesse studiato a lungo il suo piano. Quando arrivò in cima si accucciò sull’asse di legno e ci guardò.
«È sicura, venite tranquilli».
Andò Lele. Non credo per farmi coraggio, quanto piuttosto per non rimanere da solo là sotto. Con il clandestino mutante in agguato nell'ombra. La scala emise qualche rumore sinistro, mentre lui si arrampicava per raggiungere Teo, che agli ultimi pioli lo aiutò a tirarsi in piedi. Toccava a me. Afferrai la scala e iniziai a salire. Ricordo che pensai a Dio, e al fatto che non avevo voluto prendere la cresima. Però gli promisi che se fossi uscito vivo di lì, l’avrei fatta. E insomma alla fine arrivai in cima sano e salvo. Ma il peggio doveva venire. Teo si avviò lungo il ponteggio. E fu un attimo. Nel buio della mascherina non vidi praticamente niente. Ma il rumore del legno che si spezzò e l’urlo del mio amico furono abbastanza per capire quello che stava accadendo. Mi tolsi la mascherina. Teo era sparito.
«Merda» disse Lele, «è andato giù!».
***
La stazione è deserta. La biglietteria è stata chiusa anni fa e al suo posto c'è una macchinetta con il display luminoso. Anche il bar non c'è più, a sostituirlo è un distributore di bibite e snack. C'è un pannello colorato con persone che prendono il treno e sorridono. Sono appena sceso e mi arrivano addosso tutti gli anni che sono passati dall'ultima volta che sono stato qui. Ma la sensazione non è cambiata. E mi sento bene. È strano come quel posto in cui hai trascorso l'adolescenza rimarrà per sempre casa tua. Anche il giorno in cui, facendo un conto impietoso degli anni, ti accorgerai che il tempo che hai vissuto altrove è molto di più di quello che hai passato lì, il posto dove sei stato bambino, dove sei andato a scuola, dove hai passato le tue feste di compleanno, quei giorni di Natale che erano i tuoi giorni di Natale, le tue prime uscite con le ragazze, gli amici di quel tempo in cui si è amici sul serio, ecco, quel posto lì sarà sempre un po’ casa tua. Fa freddo. Chiudo il cappotto e afferro la maniglia del trolley. Viaggio leggero, non mi fermerò a lungo. Fuori dalla stazione mi aspetta un'auto. È un servizio taxi. Mi avvicino. L'autista sta guardando il diplay dello smartphone. Quando alza lo sguardo mi vede e fa il gesto di uscire, ma lo fermo. Non importa che prenda freddo, posso fare da solo. Apro il portabagagli e sistemo il trolley. E quando chiudo lo sportello, lo vedo.
Il cancello della vecchia fabbrica è ancora lì. Chiedo qualche minuto all'autista e mi avvicino.
Ferro e ruggine. La vegetazione rende ormai impossibile vedere dentro. Ma non serve. Riesco comunque a vedere tutto, come se fosse davanti ai miei occhi in questo momento. La città morta che si apre di fronte a quei tre ragazzini. Di quanti giorni è composta una vita? Eppure quelli che ricordi sono pochi. Il giorno della nostra esplorazione, per me, è uno di quelli. E il momento in cui io e Lele decidemmo di seguire Teo nella sua assurda missione è uno di quelli di cui sono ancora più orgoglioso. A volte, vorrei ritrovare quel coraggio. E vorrei sapere che fine ha fatto il clandestino che salvò Teo. C'era sul serio. Ma non era un mutante. Quel tizio dalla pelle scura, che parlava una lingua strana, viveva là dentro di nascosto. In qualche modo ci fece capire che ci aveva seguito sin da quando eravamo passati per il buco nella rete. Per questo motivo, era proprio sotto di noi quando Teo andò giù. Lo prese al volo, evitandogli una caduta che avrebbe potuto ucciderlo. Era un uomo possente. Teo finì proprio tra le sue braccia. Mi sposto lungo quello che è diventato un marciapiede. La stradina che porta qua adesso è asfaltata e ci sono delle case. Eppure, sento il rumore di quelle bici che sgommano sullo sterrato. Vedo quei tre cavalieri. Pedalano insieme, come i motociclisti dei film che attraversano l’America sulle Harley Davidson, e guardano le loro ombre proiettate lungo la strada, tra sassi, erba alta e cannicci. Uno indossa una mascherina da sci, uno ha un pacchetto di Fonzies in tasca e le tette di Pamela Anderson in testa, uno si nasconde sotto un cappuccio e sta cercando risposte che non troverà mai. Pedalano uno al fianco dell'altro, nella calda mattina di un giorno d'estate, in cui è ancora tutto possibile.
Il racconto rientra nell'iniziativa di Toscanalibri.it
"Racconti di scrittori toscani per i giorni del Coronavirus"