In molti ricordano quel libro scritto dieci anni fa da Fabio Geda (“Nel mare ci sono i coccodrilli”), bestseller tradotto in 32 lingue. Uno di quei casi editoriali divenuti tali per la forza della storia raccontata, poiché – per quanto si utilizzino escamotages romanzeschi – si tratta pur sempre di storia reale. È infatti vera la vicenda del suo protagonista, Enaiatollah Akbari, nato in Afghanistan. Era piccolo quando suo padre muore sul lavoro ed il padrone pretende il bambino come risarcimento per il carico andato perduto durante l’incidente. La madre nasconde il figlioletto, finché, cresciuto e non entrando più nel nascondiglio, decide di portarlo in Pakistan e, non senza lo strazio del distacco, lasciarlo al suo destino. Enaiatollah, così, si ritroverà a fare lavori e pericolosi viaggi in Iran, Turchia, Grecia e infine in Italia, a Torino, dove, dopo anni, riesce a ricontattare sua madre e a farle sapere che è ancora vivo. Qui termina il libro. A distanza di un decennio, lo stesso Enaiat ha voluto, però, che si conoscessero le cose accadute alla sua famiglia e a lui dopo quella telefonata. Ecco, allora, un nuovo libro a doppia firma, Geda e Akbari, intitolato “Storia di un figlio. Andata e ritorno” (Baldini+Castoldi) in cui si racconta il rapporto a distanza con la madre, la violenza del fondamentalismo, l'amore e le amicizie italiane, il ritorno in Pakistan, un secondo ritorno in Italia, una nuova casa, nuovi patimenti e gioie. Ancora una volta si ha a che fare con drammi e sentimenti di persone reali. E ciò mette in secondo piano quanto, da un punto di vista meramente narrativo, può risultare zoppicante o ingenuo. Nelle pagine di Geda e Akbari troviamo la storia di migliaia di esseri umani: strappati alle loro radici, senza patria, tormentati dalla nostalgia, tenaci nella ricerca di una vita migliore. E’ vero: in cuore loro c’è un continuo viaggio di andata e ritorno, uno stato d’animo scisso, una persona sempre in bilico tra mondi e culture distanti.
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La storia è questa, ma forse la conoscete già: mi chiamo Enaiatollah Akbari, anche se tutti mi chiamano Enaiat. Sono nato in Afghanistan, nell’Hazarajat, una regione montuosa a ovest di Kabul, selvaggia di terra e rocce, tappezzata di pascoli e con il cielo più limpido che possiate immaginare. D’inverno la neve, di notte le stelle, ovunque – tante da ritrovartele persino nelle tasche. L’Hazarajat è la terra degli hazara, la mia etnia. È grande come mezza Italia e ci abitano meno di dieci milioni di persone.
Da Torino, dove abito adesso, quando mi capita di sollevare lo sguardo in direzione delle Alpi, soprattutto sul finire dell’inverno, quando l’ultima neve le copre fin dove partono i boschi bruciati dal freddo, allora, di tanto in tanto, sento emergere una specie di nostalgia che solletica la nuca e mi riporta al calore della brace nella casa di Nava, alle grida degli amici riuniti per strada a giocare a buzul-bazi, agli odori della cucina di mia madre e soprattutto alla sua voce, che dice: Enaiat, Enaiat jan, mi serve il tuo aiuto, c’è da prender l’acqua. Enaiat, dove accidenti sei finito?
Quando avevo dieci anni, mamma ha deciso che la cosa migliore che poteva fare, vista la situazione in cui mi trovavo, era portarmi a Quetta, in Pakistan, e lasciarmi lì a fare vita di strada insieme a stormi di ragazzini selvaggi. Non subito, ma alla fine ho capito che per lei sapermi in pericolo, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che avermi vicino, ma nel fango della paura di sempre; e che, fatti i conti, preferiva affidarmi a una chiassosa comunità di mezzi orfani che sopravviveva grazie alla generosità dei commercianti d’un bazar, piuttosto che consegnarmi a un facoltoso commerciante della nostra zona, collaboratore dei talebani, come pagamento per un ipotetico debito contratto da mio padre.
Ricordo bene il giorno in cui tutto è cominciato. Ero piccolo, ma non così piccolo da non accorgermi che c’era qualcosa che non andava: l’odore della paura si era diffuso in casa nostra come quello del qhorma palaw dimenticato sul fuoco. Una mattina, quest’uomo, che come ho detto collaborava con i talebani, aveva indicato mio padre, gli aveva fatto segno di avvicinarsi e gli aveva ordinato di andare in Iran con un camion a prendere certi prodotti da vendere nei suoi negozi: coperte, stoffe, sottili materassi di spugna. Per costringerlo aveva detto: se non vai in Iran a recuperare quella merce, noi uccidiamo la tua famiglia; se scappi con la merce, noi uccidiamo la tua famiglia; se quando arrivi manca della merce o è rovinata, noi uccidiamo la tua famiglia; se ti fai truffare, uccidiamo la tua famiglia. Insomma, qualunque cosa fosse andata male: noi uccidiamo la tua famiglia. Che, come spesso mi capita di sottolineare, non è un bel modo di fare affari.
Molti mesi dopo, mentre papà attraversava un passo di montagna, un gruppo di banditi aveva assalito il camion su cui viaggiava. La notizia della sua morte ci era arrivata di sera, a braccetto dell’oscurità, e nonostante i nostri tentativi di lasciarla fuori – non è vero, no, non può essere – alla fine era entrata, ed era rimasta a dormire con noi. Al mattino era ancora lì. E non solo. Era arrivato anche il facoltoso commerciante, che venuto a conoscenza dell’accaduto si era subito presentato da mia madre, ma non per dirle, che so, condoglianze, o mi spiace, o posso fare qualcosa; ma per comunicarle che mio padre morendo gli aveva causato un danno, che la merce era andata dispersa per colpa sua che non era stato in grado di difenderla, e che ora lei doveva ripagargliela.
Nel caso in cui non avesse trovato i soldi, non c’era problema: avrebbe preso me.
In Pakistan ho vissuto poco più di un anno. Poi Iran (due anni e mezzo circa). Poi Turchia e Grecia. E alla fine sono arrivato in Italia. Era il 2004. Settembre, per essere precisi. E dato che non solo non avevo documenti validi, ma non ne avevo proprio, nemmeno uno, e manco sapevo con esattezza quando ero nato, in questura hanno deciso che per il resto della vita avrei festeggiato il compleanno il primo di quel mese, il primo di settembre – questo in caso voleste farmi gli auguri.
Quattro anni dopo essere arrivato in Italia, dopo aver trovato un posto da chiamare casa, dopo che un giorno alla volta, combattendo contro i miei demoni, tra testa, cuore e stomaco si era creato uno spazio nuovo, mi son reso conto che forse potevo anche smetterla di starmene ripiegato sul pensiero della sopravvivenza, e ho iniziato a chiedermi se era possibile ritrovare la mia famiglia: mia madre, mio fratello, mia sorella, e certi zii a cui ero legato. Volevo scoprire che fine avevano fatto. Per molto tempo li avevo come cancellati, perché dimenticare è un modo buono per non soffrire; e questo non per cattiveria o cosa, ma perché, prima di avere abbastanza spazio nella testa per occuparti degli altri, devi trovare il modo di stare bene con te stesso.
Infatti, quando ho capito che, grazie a chi mi aveva accolto, con la mia vita davvero potevo farci qualcosa di bello, e non solo, magari anche qualcosa di utile, ecco che certe domande hanno cominciato ad affiorare senza che io dovessi neppure scuotere troppo il fondo dei ricordi. Mia madre e i miei fratelli erano ancora vivi dopo sette anni di guerra? Dall’autunno del 2001 in poi, a causa del conflitto scatenato dagli attacchi terroristici dell’undici settembre, l’Afghanistan si era trasformato in un inferno. Non che prima fosse una passeggiata, eh, beninteso, soprattutto per noi hazara, ma dal 2001 la faccenda si era complicata ulteriormente: a causare migliaia di morti non c’erano più solo i gruppi fondamentalisti, c’erano pure i bombardamenti della coalizione Nato in supporto al governo afghano contro i talebani e al-Qaida. Che vita avevano fatto in quel periodo? Erano rimasti feriti? Erano ancora insieme o si erano divisi? Erano fuggiti? E dove?
Per loro era impossibile mettersi in contatto con me, perché a) non avevano la più pallida idea di dove fossi finito e b) non avevano i mezzi per scoprirlo. Io invece qualche possibilità di capire cose gli fosse successo ce l’avevo. E ho deciso di darmi da fare.
[da Storia di un figlio. Andata e ritorno di Fabio Geda e Enaiatollah Akbari, Baldini+Castoldi, 2020]
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