Gadda e quella tormentata cognizione del dolore

Luigi Oliveto

23/11/2017

Lo avevamo già scritto al debutto di questa rubrica, ma preme ricordarlo. Le pillole letterarie che settimanalmente vengono qui proposte non hanno un criterio. Vanno dalla prosa alla poesia, da autori contemporanei a quelli ormai iscritti a pieno titolo nella storia della letteratura. Sono riverbero delle letture e riletture (talvolta degli stati d’animo) del proponente. E poiché oggetto dell’ultima rilettura è stata “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda, piace, ora, parlare di questo stupefacente libro, le cui pagine vennero anticipate tra il 1938 e il 1941 sulla rivista “Letteratura” fondata da Alessandro Bonsanti. In volume sarebbe uscito la prima volta nel 1963 per le edizioni Einaudi, e come è noto il romanzo non fu mai completato dall’autore. È il racconto autobiografico di un rancoroso, crudele rapporto tra figlio e madre, che trova il suo teatro nella villa di famiglia: per la madre, luogo di culto; per il figlio, immagine della sua «incenerita giovinezza», «bestia nera della sua psicosi». In una Brianza trasfigurata fantasiosamente in Sudamerica sorge questa casa di campagna, ereditata dal padre, dove don Gonzalo Pirobutirro d’Eltino vive con la madre (il fratello più piccolo è morto in guerra). Tra la donna e il figlio i rapporti sono difficili, contrassegnati da continui litigi, reazioni crudeli. Il luogo è isolato, scomodo, abitato esclusivamente da gente rozza; quando vi giunge qualcuno, si tratta di trafficanti. In quell’angusto angolo di mondo, grava, peraltro, la presenza dell’Istituto di Sorveglianza Notturna (allegoria del regime fascista) che tiene sotto rigido controllo gli abitanti. Don Gonzalo odia la casa, detesta la madre, ma quando accade la tragedia è percorso da un forte senso di colpa, da un tardivo sentimento di rammarico nei confronti della genitrice. Le pagine di Gadda si popolano così di un’angoscia metafisica. Sono un sofferto, ingarbugliato percorso dentro, giustappunto, la cognizione del dolore. Il risultato letterario di tutto ciò è sorprendente. Gadda inventa una lingua e uno stile unici. C’è un continuo cambio di registri (drammatico, comico, parodistico, lirico); vocaboli che attingono dalla lingua colta ai dialetti, dallo spagnolo all’italiano arcaico, quando non si tratta di geniali neologismi. Il romanzo è non di meno una pungente rappresentazione della società italiana al tempo del fascismo – spostata nell'immaginario stato sudamericano del Maradagàl – la cui stupidità collettiva alimenta tutto l’odio e lo sdegno possibili di Gonzalo.
 
 
 
Pensava con dolcezza a questo suo primo figlio, rivedendolo bimbo, assorto e studioso. E adesso già curvo, noiato sopra l’errare dei sentieri. Rientrò, dal terrazzo, nella grande stanza. Le mosche avevano ripreso, dileguata la tempesta, a sorvolare la tavola: dov’erano i giornali, coi nuovi avvenimenti, ch’erano succeduti ad altri. Così d’anno in anno, di giorno in giorno; per tutta la serie degli anni, dei giorni. E i fogli, ben presto, ingiallivano. Quando le mosche, per un momento, si ristavano dal loro carosello, e anche il moscone verde, un attimo; allora nel cosmo labile di quella sospensione impreveduta udiva più distinto il tarlo a cricchiare, cricchiare affaticatamente, con piccoli strappi, nel vecchio secrétaire di noce ch’ella non riusciva più a disserrare. Il giuoco della chiave si era smarrito nella successione dei tentativi, o, forse, nelle ombre dolorose della memoria. Ci doveva esser il ritratto… i ritratti… i gemelli di madreperla… forse, anche le due lettere… le ultime!… le forbicine da lavoro, il ventaglio nero, di pizzo… Quello che le avevano regalato in palude, quando si era accomiatata dai colleghi, dalle poche alunne… più d’una febbricitante, tutte avevano voluto il suo bacio… Ma non le mancavano, por suerte, delle forbicine di riserva: tre paia, anzi.
[…]
Se il suo pensiero discendeva, dal ricordo di quei due bimbi, agli anni vicini, all’oggi… le pareva che la crudeltà fosse troppa: simile, ferocemente, a scherno.
Perché? Perché? Il volto, in quelle pause, le si pietrificava nell’angoscia: nessun battito dell’anima era più possibile: forse ella non era più la madre, come nell’urlo dei parti, lacerato, lontano: non era più persona, ma ombra. Sostava così, nella sala, con pupille cieche ad ogni misericorde ritorno, immobilità scarnita da vecchiezza; per lunghe falcate del tempo. E l’abito di povertà e di vecchiezza era come un segno estremo dell’essere portato davanti ai volti dei ritratti, dove alìgeri fatui, sul vuoto, orbiteranno entro il sopravvivente domani. Poi, quasi un rito della stagione, improvvisa, le giungeva l’ora dalla torre; liberando nel vuoto i suoi rintocchi persi, eguali. E le pareva memento innecessario, crudele. Nel tempo finito d’ogni estate, traverso il mondo che l’aveva lasciata così. Le mosche descrivevano pochi cerchî nella grande sala, davanti ai ritratti, sotto i dardi orizzontali della sera. Con una mano, allora, stanca, si ravviava i capelli sbiancati dagli anni, effusi dalla fronte senza carezze come quelli di Re Lear. Superstiti ad ogni fortuna. Ed ora nel silenzio, discendendo il tramonto, vanite le tempeste della possibilità. Ella aveva tanto imparato, tanti libri letto! Alla piccola lucerna lo Shakespeare: e ne diceva ancora qualche verso, come d’una stele infranta si disperdono smemorate sillabe, e già furono luce della conoscenza, e adesso l’orrore della notte.
Nel cielo si erano dissipati i vapori, e i fumi, su dalla strozza de’ camini, di sotto pentola, delle povere cene della gente. S’erano dissoluti come una bontà della terra: incontro alla stella vesperale, per l’aria azzurrina del settembre. su, su, dov’è la bionda luce, dai camini neri; che si adergono con vigore di torri al di là dell’ombre e delle inazzurrate colline, dietro alberi, sopra i colmigni lontani delle ville.
Aveva udito il rotolare del treno… il fischio d’arrivo… Avrebbe voluto che qualcuno le fosse vicino, all’avvicinarsi della oscurità.
Ma il suo figliolo non appariva se non raramente sul limitare di casa.
 
 
[da La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda, Garzanti, 1994]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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