Fumana. La chiamavano Nebbia, sapeva le parole che guariscono le persone

Luigi Oliveto

18/09/2024

Quella che racconta Paolo Malaguti nel suo ultimo romanzo, “Fumana”, è una storia di un secolo fa, ma non si fa fatica a capirla e a restarne coinvolti. Perché il mondo arcaico che vi è rappresentato è, più o meno consapevolmente, iscritto in una memoria comune. Possono variare le geografie di riferimento, ma non certi archetipi contenuti nel nostro inconscio. Non è dunque difficile ritrovare lo spirito (e gli spiriti) di un tempo passato, con le sue ruvidezze, quiete disperazioni, forza di sopravvivenza e persino elementari felicità. In tal caso siamo nella bassa del Po. La storia inizia nel settembre 1882 con la nascita della protagonista, che vede la luce – anzi il buio, perché stava annottando – durante una piena dell’Adige: “Da due settimane l’acqua dell’Adige si ingorgava e spumava e devastava, da Angiari in giù. La piena si era riversata nel Canalbianco, e questo aveva rotto a Bergantino prima, e a Frassinelle dopo. Ormai tutta quella fetta di terra tra Adige e Po era un lago di fango”. Le campane suonano a martello. Chi può sale sul tetto di casa cercando di salvare il salvabile. La bimba nasce circondata da quel drammatico e oscuro bailamme. Nasce orfana: la madre muore nel partorirla, il padre sparisce nel nulla, dopo che la levatrice gli aveva detto di togliersi dai piedi, forse fuggito in America a cercare fortuna. A prendersi cura della neonata resta nonno Petrolio, ruvido personaggio, pescatore di anguille. Sarà lui, e a modo suo, a crescere la nipote. Ben presto le insegna a muoversi nelle paludi e a pescare. La bambina cresce precoce, sicura di sé, tant’è che, pur sempre bambina, si allontana abitualmente da casa, senza paura, per acquitrini e nebbie. E proprio la nebbia diventa il suo nome: Fumana, come giustappunto viene chiamata la nebbia da quelle parti. Giunta all’adolescenza, il nonno chiede alla Lena, la “strigossa” del posto, di seguire la ragazzina nel suo diventare donna. Così Fumana, scopre di avere anche lei il dono di poter guarire le persone. Come Lena le insegna, trattandosi di un dono, è per dono che tale capacità va esercitata, non per venale tornaconto, ma per il bene degli altri. La vita di Fumana viene dunque segnata da una ulteriore diversità: con questa dovrà fare i conti per il resto dei giorni, ma tanto al pregiudizio e alle malignità altrui si è abituata fin da piccola. Lei, tosta e oltre le piccinerie della gente, va per la sua strada, segue i suoi sentimenti, compreso quello dell’amore (purtroppo rivelatosi un non-amore di violenze) e della maternità (accollandosi la cura di una bimba non sua). Fumana procede verso il proprio destino. E così, in quegli stessi anni, fa l’Italia; e insieme all’Italia, quel piccolo, stagnante mondo di pianura: due guerre, nuove miserie, il fascismo, morti, rinascite, trasformazioni sociali che, al pari delle idrovore della bonifica, prosciugheranno quell’universo antico, tanto crudo quanto tenero. Fumana non lascerà a nessuno l’eredità di parole e segni che facevano guarire i mali delle persone. Nata con il furioso esondare delle acque, così morirà.
 
***
 
La bambina sarebbe diventata una ragazzaccia persa, al paese tutti ne erano certi, come si sa che marzo è un mese bastardo. Niente di che stupirsi: focolare e gonna fanno onesta la donna, e la bambina non aveva né dell’uno né dell’altra.
Viveva più fuori che dentro, come le vacche in estate, e indossava sempre un paio di brache di fustagno che la facevano sembrare uno di quegli scalzacani che vanno a tirare sassi ai pulcini per noia e cattiveria.
Era stato Petrolio a metterle insieme il corredo: le brache le aveva pescate dal fondo di un vecchio baule, e aggiustò quel che bastava con la lenza. Ci aggiunse una maglia di lana per l’inverno e una camicia di cotonaccio per l’estate. Poi, visto che nella bassa d’inverno il gelo morde, il vecchio recuperò un tabarro bisunto e frusto, che era più buchi che stoffa, ne cavò una mantellina, e con la lana di risulta mise assieme un berrettone, che però venne fuori ben strano, tanto che pareva quello degli antichi dogi di San Marco.
La bambina non sapeva chi fossero i dogi e a malapena conosceva sant’Apollinare, protettore di Voltascirocco, visto che il nonno a messa non ce la portava. Quindi non si curò della foggia del berretto, né delle occhiate tra l’inorridito e il pietoso che le lanciavano le donne quando passava col nonno lungo la via.
Piuttosto, non appena imparò a mettere un piede avanti all’altro, dimostrò di avere una gran voglia di scoprire com’era fatto il mondo, perché quando poteva infilava la porta del casolare e partiva, una volta al paese, un’altra attraverso i seminati, un’altra ancora verso gli infiniti acquitrini delle valli.
Petrolio stava all’erta, e tirava sempre il catenaccio, perché la nipote aveva le gambette corte, vero, ma trottava che era una meraviglia, merito certo del latte di capra, della polenta e dell’anguilla marinata, morbida e grassa, che il nonno non le faceva mai mancare da quando le erano spuntati i primi denti.
Il problema era d’inverno: in quella parte di mondo, dove non sai dire con certezza cosa è terra, cosa mare e cosa fiume perché tutto è impastato e confuso, calano certi nebbioni che restano lì per settimane. Talvolta, quando c’è luna piena, non capisci nemmeno se è giorno o notte, perché quel lucore pallido di madreperla non cambia mai, e così o hai un orologio in tasca, o ti rassegni ad andare a letto quando hai sonno e ad alzarti quando ti svegli. Ed è un attimo dare di matto, e sentire all’improvviso la strana voglia di legarti una pietra al collo e buttarti in Po.
Era con la nebbia che Petrolio, in quei primi anni, dovette sudare sette camicie a tenere d’occhio la nipote, e gli venne pure la tentazione di legarla come un cane, perché adesso, oltre al resto, la piccola aveva imparato a levare il catenaccio da sola, così quando il nonno si appisolava di fronte alle braci del camino, con la pipa spenta che gli pendeva tra le labbra rugose, o quando era in giro a pescare, lei prendeva e partiva, e poi era una scommessa ritrovarla in quel gran mare bigio.
Petrolio, mentre si metteva il tabarro e accendeva la lucerna per farsi strada nella caligine, un po’ bestemmiava un po’ pregava l’anima di sua figlia che mettesse una mano sulla testa della bimba, e la tenesse lontana da pozzi, chiaviche, anguane feroci, serpentoni di palude, sabbie mobili, veneziani e ogni altra disgrazia che da sempre grava da quelle bande.
Non accadde mai niente, o meglio, non accadde mai niente di male. Petrolio ritrovava sempre la nipote, e quando se la vedeva davanti, con le guance rosse e gli occhi brillanti, subito gli passava la voglia di mollarle una sberla, e nemmeno la sgridava. Si limitava a prenderla per gli stracci con forza, quasi dovesse sradicarla dalla terra umida, se la caricava su una spalla, o sottobraccio, e la portava via, senza dire una parola.
Fu proprio allora che la bambina si guadagnò il nome di Fumana, che poi nella bassa vuol dire appunto nebbia. La storia non conta quale fosse il suo nome di prima, né se sia stato Petrolio, o qualche altro lì a Voltascirocco, a ribattezzarla così. Fatto sta che da allora Fumana fu per tutti soltanto Fumana.
A Petrolio pareva ben strano che Fumana non avesse paura delle tenebre, e anzi sembrasse quasi attendere i primi giorni d’autunno, quando tutto scompariva, per scapparsene chissà dove.
Ben presto non se ne diede più pensiero, anche perché sapeva che Fumana aveva imparato a conoscere l’argine del Canalbianco e la campagna e i bordi delle grandi valli meglio di un cane da punta, e non aveva nulla di che temere.
Oltretutto Fumana, questo il vecchio l’aveva capito col passare del tempo, non scappava a caso, ma prendeva sempre lungo l’argine, tirava dritto fin quasi a Smergoncino, e lì si piantava sul limitare del bosco dei conti Papadopoli, senza però penetrare tra le querce e i lecci immobili nell’ombra. La trovava sempre lì, seduta sull’erba umida, che pareva un sasso coperto di muschio.
Fumana non protestava mai quando Petrolio veniva a prelevarla, al massimo qualche volta sussurrava con un filo di voce: – Ancora un pochetto, nono.
Dal canto suo, Petrolio non chiedeva mai alla nipote cosa ostia ci vedesse di bello nel perdersi nella nebbia, e cosa vi trovasse. La vita gli aveva insegnato che, se si può, è sempre meglio non fare troppe domande.
E poi una volta, Fumana avrà avuto sì e no sette anni, Petrolio avrebbe giurato, avvicinandosi al luogo in cui di solito la ritrovava, di sentire delle voci nel nebbione. E una voce era, sì, quella di Fumana, ma l’altra, che pure gli pareva di donna, il vecchio mica l’aveva riconosciuta.
Fin qui niente di troppo strano. La cosa strana fu quando Petrolio raggiunse Fumana, perché la trovò sola, come tutte le altre volte. Con lei c’erano solo il vuoto opaco dell’aria umida e, più in là, dove iniziava la macchia dei Papadopoli, il lieve stormire delle fronde. Nient’altro.
Petrolio si guardò un attimo attorno, poi lanciò un’occhiata appena alla nipote, che però lo fissava con l’aria felice e rassegnata di sempre, forse appena con gli zigomi più rossi del solito, e gli occhi più brillanti.
Non le domandò nulla, e in fin dei conti non si meravigliò nemmeno troppo: pure lui tante volte, quando andava a pescare di notte nei dedali d’acqua, aveva visto luci strane, e udito versi d’animali mai sentiti in vita sua, e talvolta addirittura orecchiato melodie che parevano provenire da organi di chiese sommerse.
 
[da Fumana di Paolo Malaguti, Einaudi, 2024]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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