Fuggire in un perenne altrove in cerca di salvezza

Luigi Oliveto

06/05/2021

È capitato di scriverlo altre volte. Dietro ciò che poi diventa Storia ci sono le storie, le esistenze degli esseri umani, i loro corpi, affetti, sentimenti, paure, speranze. Ce lo ricorda ora il romanzo di Alessandra Carati “E poi saremo salvi” (Mondadori) che muovendo da un drammatico spaccato di storia recente – la guerra in Bosnia ed Erzegovina – racconta di chi, costretto a fuggire per salvarsi la vita, sia comunque condannato ad un inestinguibile tormento: quello provocato dallo strappo con le proprie radici, i luoghi, “la casa”; così che ogni altro luogo diviene altrove. Nella vicenda narrata c’è una bambina, Aida, che ha sei anni quando insieme alla madre Fatima (con in pancia il fratellino) deve scappare da un villaggio della Bosnia, raggiungere il padre al confine con l’Italia e, insieme, proseguire alla volta di Milano. Dove arrivano, ma dove – toccata la sponda della salvezza – tutto si fa complicato, ciascuno è a suo modo preso da un male di vivere, da una rabbiosa nostalgia di ciò che si è dovuto lasciare (e che, peraltro, non esiste più). Spaesata, trapiantata in quell’altrove, la famiglia si sfalda, diviene convivenza di solitudini, frustrazioni, rimorsi, segreti. Crescendo se ne rende perfettamente conto Aida, forse la prima a capire come, per salvarsi la seconda volta, sia necessario un ulteriore strappo (psicologico, culturale, affettivo) con le proprie radici. A caratterizzare questa piccola saga familiare sono due figure femminili: Aida (voce narrante) che deve formarsi, pensare alla vita guardando avanti; la madre Fatima, una madre coraggio che per salvare i figli dalle atrocità della guerra, ha dovuto in primo luogo combattere con sé stessa, con le proprie contraddizioni, con il saper mediare tra audacia e prudenza, severità e tenerezza. Una storia così per raccontarne chissà quante altre. Ovunque ci siano guerre, fame, persecuzioni. Ovunque si debba fuggire per ritrovarsi in un altrove e perdere quasi tutto di sé stessi.
 
***
 
L’unico ricordo intatto della mia infanzia è un presagio di quello che ci sarebbe toccato poi.
La nostra vita era semplice, finiva dove finiva il villaggio ed era limitata dal bosco, dalla strada che portava in città, dai frutteti che si arrampicavano sulla montagna. Oltre quei confini non c’era nessun altro mondo dove avremmo potuto vivere.
Io e Mirko avevamo sei anni, giocavamo liberi ovunque ed eravamo inseparabili, due foglie di un polmone. Un giorno stavamo seduti di fronte a casa. Mirko ha detto: «Ci sarà la guerra e ce ne andremo tutti».
Non sapevamo che cosa fosse la guerra, per noi era una parola sussurrata che aveva il potere di rendere gli adulti insicuri e cattivi.
Mi sono alzata e gli ho urlato contro: «Non ci sarà la guerra e noi non ce ne andremo!».
Anche Mirko si è alzato. «Sì, invece! Ce ne andremo o ci uccideranno!»
Ha fatto scivolare nei pugni chiusi tutta la frustrazione di non potermi picchiare ed è scappato lontano. Si è buttato sulle galline che beccavano poco distanti, spaventandole e facendole fuggire in tutte le direzioni, come ragni dal buco.
A casa ho chiesto a mia madre se era vero, se la guerra stava arrivando e lei mi ha detto: «No. Al villaggio non arriverà mai».
Le ho creduto.
 
«Resta sveglia.»
Il calore della stufa riempiva tutta la stanza e mi ero appisolata.
«Non dormire.» E questa volta mia madre mi ha scosso una spalla.
«Non ce la faccio.»
«Tieni gli occhi sulla porta. Possono arrivare da un momento all’altro.» Nel buio ho cercato il vano chiaro.
Dormivamo in un unico locale, per terra, su materassini di spugna. Mio padre stava costruendo una casa più grande tutta per noi, ma non era ancora pronta, così in attesa che finissero i lavori vivevamo dai nonni. C’erano anche la zia Mejra e mio cugino Samir, di due anni più piccolo.
Quando sulla stufa bolliva la mia porzione di latte, Samir andava dal nonno a chiederne un po’ finché non gliene dava metà. Non è che il nonno non mi amasse, solo che mio cugino Samir era nato maschio e al villaggio un figlio maschio vale di più. Mia madre si arrabbiava, allora la nonna allungava di nascosto la mia porzione con l’acqua. Una volta mi è venuta la diarrea e sono finita all’ospedale. Mia madre ha preso da parte la nonna e le ha detto: «Non lo devi fare più». Poi si è fatta coraggio ed è andata dal nonno. «Il latte è per la bambina.» Era stato un gesto eroico per lei: aveva meno anni di quanti ne ho io adesso, meno opinioni, meno desideri e si era sempre sentita un’ospite dentro la propria vita. L’ho capito dopo molto tempo e molta rabbia, quando l’orrore aveva spazzato via il senso di ogni cosa e ci aveva lasciati a terra stremati.
Sentivo mia madre muoversi per cercare di mettere in valigia tutto quello che poteva. La nonna l’aiutava e ogni tanto piangeva, si abbracciavano.
«Dove andate? Qui avete tutte le vostre cose, il congelatore è pieno di carne, di verdura. Qui si sta bene.»
«Tuo figlio mi ha detto di andare. Se l’aria si calma e tra una settimana posso tornare a casa mia sono contenta, però adesso devo andare.»
Mio padre lavorava all’estero. Quando tornava, portava delle bambole nuove, così belle da sembrare vere. Al villaggio non ce n’erano come quelle, perciò le sotterravo subito in giardino, in un posto segreto. Erano il mio tesoro sepolto e nessuno le doveva toccare, né Samir, né Mirko, né gli altri bambini del villaggio.
Babo al telefono aveva detto alla mamma: «Vai al catasto e prendi l’atto di proprietà della casa e del terreno. E i documenti tuoi e della bambina. E le foto. Tutto il resto lascialo».
Ci aspettava appena oltre il confine, non poteva venirci a prendere perché presto avrebbero chiuso le frontiere. Dovevamo fare il viaggio da sole. Mia madre era incinta.
La nonna mi ha portato una tazza di caffè.
«Bevine un po’, kuća moja mila.» Mi chiamava “mia casa adorata”, che da noi si usa per dire “tesoro mio”. Lo faceva solo quando stavamo sole, era una cosa nostra. Ho assaggiato il caffè, e avrei voluto sputarlo tanto era amaro, ma non sapevo dove, allora l’ho ingoiato.
Poi la porta si è spalancata.
Il suono mi ha congelato. Sono rimasta immobile a fissare la sagoma scura ritagliata in controluce.
«Dobbiamo andare via, adesso.»
Era la voce del nonno, i nostri cuori hanno ricominciato a battere, ciascuno per conto proprio.
«Devo prendere ancora due cose per la bambina» ha detto mia madre.
Il nonno l’ha guardata. «Non c’è più tempo, Fatima, stanno per arrivare.»
 
[da E poi saremo salvi di Alessandra Carati, Mondadori, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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