Francesco Carofiglio, ricordare per non morire

Luigi Oliveto

28/11/2019

Francesco Carofiglio è scrittore che predilige lo scandaglio della memoria. Avviene anche nell’ultimo romanzo “L’estate dell’incanto” (Piemme) dove a evocare i propri ricordi è la novantenne Miranda. L’anziana donna, attraverso le foschie che affollano i pensieri, raggiunge il tempo dei suoi dieci anni, quando bambina, nell’estate del 1939, partì con la mamma da Firenze alla volta della casa del nonno che abitava nella campagna pisana. Era convinta che si trattasse di una villeggiatura, ma “invece era la fuga”. Infatti, da lì a qualche mese, anche l’Italia sarebbe sprofondata nel baratro della guerra. Eppure, nel ripensare quel tempo dell’innocenza (e dell’inconsapevolezza su quanto succedesse altrove) Miranda ritrova una luce magica: “Tra le nebbie che affollano, adesso, i miei pensieri di vecchia, una luce rischiara una piccola porzione di mondo. Chiudo gli occhi e rivedo, intatta, la bellezza radiosa della campagna. Riesco a distinguere ogni dettaglio, nel fremito delle ciglia, colpite dai raggi obliqui del mattino. Avevo dieci anni, e il mondo stava per affondare nell’abisso. Ma per me era solo estate e campagna. La più bella estate della mia vita.” In quell’angolo di mondo fuori dal mondo – la cascina del nonno pittore, il bosco teatro di avventure e dei primi fremiti amorosi – accadde per lei il tempo in cui la giovinezza sboccia improvvisa, stupisce ed esalta. Ora, da vecchia, Miranda ripensa a quei giorni in cui nella sua vita era ancora tutto da vivere, soffrire, conquistare, perdere. Lo fa come si assume un farmaco affinché la vita possa non corrompersi. Non tanto la vita biologica, ma quella interiore (“non esiste vecchiezza, e forse nemmeno la morte”). Ecco, dunque, la forza salvifica del ricordo. A contraddistinguere Francesco Carofiglio (si leggano anche i suoi libri precedenti) è la dimensione elegiaca, ed è molto bravo nel saperne controllare gli esiti narrativi con una scrittura misurata, nitida, scandita. Così che i sentimenti non diventino sentimentalismo, la nostalgia piagnisteo, il passato solo rimpianto.
 
***
 
Mamma si chiamava Sarah MacMahon, suo padre era irlandese, ma lei era nata a Firenze. I nonni materni non li ho mai conosciuti. La nonna faceva l’infermiera, morì poco prima che io nascessi, per un’infezione polmonare, il nonno era morto vent’anni prima, in guerra, era un ufficiale dell’esercito britannico.
Mio padre si chiamava Arturo Soderini. E io sono rimasta sempre Miranda Soderini, come lui, come il nonno. Non mi sono mai sposata.
Adesso mi sembra tutto schiacciato, la memoria delle cose vissute, le immagini suscitate dai racconti altrui. Le vite degli altri sono impastate alla mia, sembrano diventare una sola, davanti a questa finestra che si affaccia sulla collina. Amo questa città, guardo i muri delle case, le strade, la bellezza di ogni dettaglio. Ho vissuto a Firenze per tanti anni, e ci vivo. Ma ho abitato a lungo a Parigi, che mi manca, in certi pomeriggi invernali. Ho viaggiato, ho viaggiato moltissimo.
L’ingiuria degli anni mi ha tolto lucidità, il senso delle distanze, il passo spedito, perfino il pudore, talvolta. Ma mi ha regalato questo senso lieve di galleggiamento, questo godimento silenzioso della vista e del gusto. Una specie di sospensione, una trance emotiva che mi consente di non cedere più al pianto, ricordando le cose perdute, chi è andato via. E così il senso stesso dello stare al mondo mi pare più leggero, ed effimero, quasi fossimo davvero formiche, viste dall’alto. Formiche.
«Buonasera.»
Il nonno entrò nella sala da pranzo tre minuti dopo le diciannove, la mamma ebbe un piccolo sussulto e si alzò dalla sedia.
«Mi scuso per il ritardo.»
Si avvicinò a lei e le tese la mano. Poi mi guardò, e mi avvicinai anche io. Feci una specie di inchino, quello che ci avevano insegnato le suore quando dovevamo salutare la madre superiora. E lui un cenno col viso, senza mutare espressione. Poi ci sedemmo a tavola.
Mi ricordo nitidamente quella cena silenziosa, ogni passaggio delle posate, il profumo della zuppa, il pane raffermo che mia madre spezzava con un piccolo schiocco. E la luce che entrava dalle finestre del soggiorno, segnando la parete di un giallo intenso, che sfumò presto nel rosso e poi sparì. Non dicemmo nulla.
Non abbiamo mai detto molto di più di così, a Villa Ada. Mai parlato come si parla nelle altre famiglie, credo. Le giornate in casa erano silenzi che si prolungavano nei suoni della natura, e poi mutavano, in una forma plastica, dando voce alle voci che imparai presto a riconoscere. Gli animali del bosco, ciascuno con un passo e un verso differente, gli uccelli che si levano in volo, quelli che segnano orbite concentriche sopra il passaggio delle prede terrestri, lo strisciare delle serpi, elegante e osceno, e lo spostamento imprevedibile delle lucertole.
L’abitudine all’essenziale. Quella parsimonia delle conversazioni mi ha forse avviata a un ascolto più attento, quasi arcaico, come un richiamo lontano dei sensi, primario, che non richiede mediazione. Fare a meno del sale e dello zucchero, assaporare ogni cellula. Sentire.
Non so più dire quanto, di quello che attribuisco a quella stagione, sia il racconto delle cose accadute. Ma sono certa di quella sensazione, che si ripropone adesso, intatta, mentre scrivo.
C’è come un intoppo nel fluire del mio essere, dopo quell’estate, qualcosa che non somiglia più a quella luce. Ma quella sensazione è la carezza di un’onda, una tregua indescrivibile, una sospensione.
E io vorrei restare così, sospesa.
Quando finimmo di cenare ognuno si ritirò nella sua stanza, mentre Elda rigovernava nella cucina semibuia. Salendo le scale sentivo arrivare i suoni delle posate nell’acquaio, lo strofinio delle stoviglie. Ma nessuna voce.
Il nonno era misteriosamente scomparso nell’ala proibita della casa, quella in cui c’erano le stanze per il lavoro, il suo studio.
Ritornammo nella nostra camera, in casa era sceso il freddo delle colline quando fa buio. Misi la camicia da notte di mussola bianca che mamma mi aveva preparato sul letto, e andai a lavarmi i denti col bicarbonato. Poi feci la pipì e tornai a letto. Ma non mi addormentai subito.
Restai a guardare nella penombra, senza fiatare, mentre mamma leggeva un libro alla luce incerta dell’abat-jour. Di tanto in tanto si girava dalla mia parte e mi sussurrava qualcosa.
Nella penombra riconobbi le linee d’argento che incorniciavano gli affreschi della volta, e i fiori pallidi che c’erano intorno, e le foglie più scure. E tutte le piccole crepe che ramificavano, segnando il cielo di lampi immobili.
Poi mi addormentai, credo. Sognai mio padre, credo.
Galoppava nei campi e arrivava sorridendo.
E io, non so perché, piangevo.
A volte penso che la mia vita non esiste, adesso.
Mi sembra che tutto sia avvolto nel silenzio di questa casa. Sono seduta su una poltrona di pelle, ormai consumata, proprio accanto alla libreria. Il mobile corre lungo la parete e nella penombra sembra animarsi di piccole voci. La luce della lampada taglia uno spicchio di stanza in cui io sono ammessa e lo divide dal buio. Io sollevo gli occhi dal libro, o dal quaderno, o da un rammendo che mi fa sentire viva e guardo proprio lì, nel buio.
Uso la mia solitudine con il metodo paziente di chi non ha più fretta. Mi concentro sui gesti, sulle parole pronunciate a mezza voce, sui suoni della strada. A volte mi sento sopraffatta dal senso di esserci, dal sentirmi terrestre e presente, con le radici che affondano in una vita infinita. Altre mi sento invasa da una leggerezza strana, che mi fa sorridere dei dettagli, della mia espressione ilare, come una vecchia pazza che si guarda allo specchio.
Forse lo sono, una vecchia pazza che si guarda allo specchio.
Quanti anni sono passati? Quante volte ho percorso le stesse scale, gli stessi gradini, pensando qualcosa di futile nelle giornate uguali, comuni, noiose. Non lo ricordo più. Mi sembra di non riuscire a seguire un pensiero fino in fondo, si interrompe, scarta di lato, perde i suoni e le parole, muta, fino a quando mi sorprendo a non pensarlo più, quel pensiero. Non esiste.
Sulla libreria c’è uno scaffale più ampio, in basso. Sopra c’è una cassetta dove conservo le mie lettere di bambina, e di ragazza. Le lettere di quegli anni. E un quaderno delle minute. Tutte le minute delle lettere spedite a mio padre, da quell’estate in poi.
 
[da L’estate dell’incanto di Francesco Carofiglio, Piemme, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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