Francesca e Nunziata. Un'epopea familiare sullo sfondo di un’Italia in divenire

Marialuisa Bianchi

25/07/2024

Ho riletto “Francesca e Nunziata” per la terza volta, l’ho trovato come lo ricordavo: un grande romanzo, uno dei pochi che su cui mi attardavo nel finale per farlo durare di più. Si impara tanto e coinvolge. Grazie alla casa editrice Sellerio è di nuovo in libreria il romanzo rivelazione di Maria Orsini Natale (Torre Annunziata, 1928-2010) che nel 1995 a 67 anni esordì con un vero e proprio cult sulla forza delle donne e l'epopea dei pastai vesuviani arrivato in cinquina allo Strega.

Nel 2021 librai, lettori e circoli letterari chiesero, con un appello rilanciato dall'ANSA, la ripubblicazione dell'opera, ormai introvabile in cartaceo. Da questo romanzo, finalista al premio Strega, è stato tratto un film con Sofia Loren e Marcello Mastroianni per la regia di Lina Wertmuller. La regista rimase molto colpita dalla storia del pastificio Montorsi e decise di trasferirlo in pellicola con la collaborazione alla sceneggiatura di Elvio Porta che accettò, benché non amasse le sceneggiature tratte dai romanzi perché questa storia gli appariva come un ritorno a casa e soprattutto rappresentava l’immagine di “un paradiso dell’infanzia”, essendo anche lui discendente di una piccola impresa di industriali vesuviani, stoffe pregiate come pasta artigianale di qualità. “Una villa, una fabbrica, un mondo persi, come quelli di Francesca e rimasti vivi solo dentro di me, nelle memorie indelebili della mia infanzia”.
Il romanzo ha proprio il gusto dei sapori unici e irripetibili dei piatti delle nostre infanzie.

Dunque tutto comincia dalla costiera amalfitana, terra di visioni e di colori brillanti, acqua vento e sole, dove la famiglia vive in una casetta sotto una cascatella che fa muovere le macine. Il patriarca è un nonno mugnaio che con la sua semola e sette figlie e sette nipoti, tutte femmine, tranne il gatto Guaglione, si fa anche pastaio. Vende le spaselle di pasta ai pescatori di Napoli che arrivano al fiordo dove vive la sua numerosa e allegra famiglia. Molto bella è l'ambientazione, disegnata da tratti lievi e favolistici, avvolta da profumi e sapori antichi; sembra quasi di poter sentire l’aroma acre dei limoni della costiera amalfitana. Poi la famiglia si trasferisce in una località sotto il Vesuvio perché da lì era più facile trasportare i prodotti e inizia l’ascesa di questo pastificio attraverso gli anni della storia d’Italia dal 1848 al 1940, cioè fino alla dichiarazione di guerra. Intanto prosegue la saga familiare con matrimoni, adulteri, orfanelle, scalate sociali e gelosie fra parenti, mentre arrivano le prime macchine. Perché all’inizio si impastava con i piedi e si asciugava al sole e al vento, facendo gramolare l’impasto. Quando compaiono le prime marsigliesi, che utilizzavano lo scuotimento meccanico, gli operai e le operaie si ribellano e le distruggono, perché una marsigliese lavorava per 6 operai e quindi toglieva il pane a 5 famiglie, visto che bastava un solo dipendente a controllarla.

Un’arte, quella dei primi pastai, segreta perché bisognava conoscere le fasi lunari, interrogare le nuvole e le stelle, sentire l’umidità senza igrometro. Prevedere venti e tempeste e anche gli scirocchi che ammuffivano la pasta, presagire con il naso e l’istinto di un marinaio. “A’ pasta non è na cosa morta è na’ cosa viva”. Quasi tutto avveniva per sortilegio, ma in realtà era una capacità intuitiva e collaudata da anni e anni di esperienza. E quando poi i maccheroni, dice Francesca, si sono fatti con l’essiccatore ovunque, tutta questa esperienza è risultata inutile ed è andata perduta e poi i pastifici avrebbero dovuto consorziarsi per vendere meglio, ma non sono stati capaci e la grande industria li ha distrutti.

Le protagoniste di questa impresa sono due donne, diverse nel carattere, l’una una donna ottocentesca che diventata una vera signora e l’altra una ragazza presa da un orfanotrofio, per una grazia alla Madonna, che finirà con l’ereditare la sapienza della madre adottiva, con un carattere più sensuale, più aperto. La tenacia, l'amore per il proprio lavoro, la passionalità caratterizzano entrambe. Sono donne nate in contrade vesuviane quindi ne percepiscono la presenza reale e mitica. Chi vive in questa terra ha una paziente concezione della vita e anche indulgenza verso lo spirito delle grandi forze della natura, e questo arriva dall’antico culto della grande madre. La religione della natura e del rispetto della terra. La devozione per Era Argiva, la divinità che a Peastum ha il palmo aperto a offrire un melograno, il frutto dai semi copiosi e rossi, simbolo di fertilità e abbondanza. “Il personaggio di Francesca ne eredita il sentimento della nonna e in povertà secca le mele granate i rozzi cassetti o le aggruppa appese al muro. In ricchezza ne avrà sui mobili copie in argento o in ceramica preziosa”.

Il testo di Maria Orsini Natale non è solo un libro sulla pasta né un libro di storia, è un romanzo di culture e valori arcaici e classici, contadini e borghesi, ma soprattutto di personaggi, di deliziosi canti antichi riportati. “Arrivano da lontano, piccole cose, ma come tutte le piccole cose, hanno dentro l’infinito [...] erano il sale di una gente e sono in via di estinzione”.  Con l’uso del dialetto perché i suoni, così modulati, danno subito le immagini. Favolosa, ad esempio, la trasformazione napoletana dell'espressione latina "caput sine censu" che diventa "capa ‘e zi’ Vicienzo" o le ciliegie di derivazione greca antico “a crissomolla”, crysomelon. Il tutto scritto in uno splendido italiano con un contrappunto che ricorda le fiabe. Infatti, si rifà alla tradizione orale del cunto e ai testi di Gianbattista Basile. Come abbiamo visto il mugnaio con sette figlie fa parte della tradizione orale delle favole; invece, la scrittura non è affatto piana né semplice, piuttosto barocca e avvolgente. All’inizio disorienta, come un dolce molto decorato e leggero, arioso soffice sotto la lingua, ma che può anche non piacere per queste raffinatezze.

Pur non essendo autobiografico, il romanzo ha la forza delle storie vere e l’autrice deve essersi documentata moltissimo tanto che sembra che lei stessa sia una pastaia, anche se i parenti della nonna si occupavano di grano, il famoso grano Taganrog, che proveniva dal mar d’Azov, un grano duro particolare, di cui purtroppo oggi si è persa traccia. I contadini a un certo punto della storia della Rivoluzione russa furono costretti a sfamarsi anche con le sementi, quando nel 1918 obbligati da Lenin, dovettero consegnare tutto il grano.
 
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Marialuisa Bianchi

Marialuisa Bianchi

Molisana d’origine, si è laureata in storia medievale a Firenze, dove vive. Ha insegnato Italiano e Storia nelle scuole superiori. Ha appena pubblicato per i tipi di Mandragora Storia di Firenze. La preziosa eredità dell’ultima principessa Medici che ha reso grande il destino della città. Precedentemente il romanzo storico Ekaterina, una schiava russa nella Firenze dei Medici e, nel 2021, La promessa di Ekaterina (edizioni End). Ha esordito con un libro...

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