Figli del Volga. Epico romanzo corale di Guzel’ Jachina

Marialuisa Bianchi

01/03/2022

In un momento tragico come quello odierno è importante parlare di un libro che racconta la storia russa e forse ci aiuterà a districarci nella complessità dei fatti, illuminandoci su avvenimenti lontani che si ripresentano in forme diverse anche oggi. Ricordiamo il grande esordio di Guzel’ Jachina “Zuleika apre gli occhi”, sulla deportazione dei Kulaki in Siberia negli anni trenta che ci ha mostrato una grande narratrice e acuta osservatrice dei fatti storici. Intanto c’è Holodomor, a dividere la memoria ucraina da quella russa, sovietica in particolare. Holodomor è la parola ucraina formata da holod (fame, carestia) e moryty (uccidere, ammazzare). E questa parola nella memoria dell’Ucraina definisce lo sterminio per fame di milioni di contadini, piccoli proprietari, allevatori, sacrificati da Stalin sull’altare della collettivizzazione forzata.
 
Il nuovo romanzo di Guzel’ Jachina “Figli del Volga” (Salani - traduzione di Claudia Zonchetti), epico e insieme corale, è la storia delle due rive del Volga e dei tedeschi che ci vivevano dalla metà del Settecento, senza perdere lingua, usi e costumi. Un piccolo enclave tedesco in terra di Russia. Il libro è dedicato al nonno, insegnante di tedesco in campagna; infatti il protagonista è Jakob Ivanovic Bach, lo shulmeister del villaggio che per una strana occasione decide di attraversare il Volga e da lì inizia quella che a tratti è una fiaba, nella migliore tradizione delle fiabe russe, ma anche una vicenda storica, con milioni di morti per fame e deportazioni. Per la serie, l’umanità non ha imparato nulla dalla storia? Viviamo giorni inquietanti usciti da un secolo che aveva conosciuto momenti drammatici e terribili e già nel 2022 ci troviamo a fare i conti, nonostante la pandemia, con l’invasione dell’esercito russo in Ucraina. Dopo la caduta del muro e il conseguente crollo dell’Unione Sovietica e del blocco orientale ci sono state enormi ripercussioni su un equilibrio al centro del quale si trova proprio Mosca. A differenza di altri paesi del blocco la prospettiva non è stata quella di un ritorno all’unità nazionale o alla democrazia, bensì la perdita di centralità nell’equilibrio mondiale, con una conseguente privazione dell’identità sociale e culturale.
 
L’atteggiamento autocratico e imperialista che inizia con gli Zar e prosegue con Stalin e ora con Putin, l’indifferenza alla sorte degli esseri umani nel nome dell’espansione o difesa del carattere russo, si ritrovano ieri come oggi. Pensiamo ai confini che nel romanzo “I figli del Volga” sono rappresentati simbolicamente dalle due rive del fiume. La riva sinistra è quella della storia, del tempo, quella che sta per vivere la rivoluzione. La riva destra è un altrove sospeso di cui, sull’altra riva, nessuno sa nulla. È una terra di meli in fiore, di donne che tessono al telaio, di favole. I due mondi sono perfettamente impermeabili, fino a quando Jakob Bach non viene assunto da Udo Grimm, sulla riva destra, per impartire lezioni alla figlia Klara. L’amore che nasce tra Jakob e Klara romperà il sigillo che separava le due realtà, con conseguenze inimmaginabili. E qui inizia la vicenda d’amore e di morte.
 
Bellissimo l’incipit: Il Volga spartiva il mondo in due. La riva sinistra era bassa e gialla, si stendeva piatta e si scioglieva fra le steppe su cui ogni mattina sorgeva il sole. Sulla riva sinistra la terra aveva un sapore acre ed era tutta scavata dai roditori, l’erba era alta e fitta, gli alberi erano tozzi e radi. I campi – molti a cocomeri, zucche e meloni – si perdevano fino all’orizzonte, colorati come una coperta baškira. A ridosso del fiume si incastonavano i paesi. E dalla steppa arrivavano folate calde di odori pungenti: il deserto turkmeno e il sale del Caspio. Come fosse l’altra riva non lo sapeva nessuno. Il lato destro incombeva sul fiume sotto forma di montagne possenti e nel fiume cadeva a strapiombo, come squarciato da una lama. Lungo lo squarcio, tra le rocce, i ciottoli franavano giù, ma non per questo i monti si abbassavano, anzi erano di anno in anno più scoscesi e forti: di un verde scurissimo in estate, per i boschi che li ricoprivano, e bianchi in inverno. Dietro a quelle montagne tramontava il sole. E dietro a quelle montagne c’erano altri boschi di agrifogli infreddoliti e conifere fitte; e c’erano le grandi città russe con i loro cremlini bianchi; e c’erano le paludi, e i laghi d’acqua gelida di un azzurro trasparente. Dalla riva destra arrivava sempre e soltanto il freddo: pur lontano, il mare del Nord faceva sentire il suo respiro. Per vecchie rimembranze, qualcuno ancora lo chiamava ‘il Grande Tedesco’.”
 
L’autrice riesce a parlare di stalinismo e carestia utilizzando una lingua poetica e onirica, infatti il protagonista reagisce alla realtà inventando personaggi di carta alternativi, pure quando sa fin dall’inizio che l’epilogo non piacerà al suo committente. Nella sua esistenza muta non c’è spazio per una nuova era politica davanti a cui inginocchiarsi. La rivoluzione appare lontana a lui che scrive le fiabe e mentre i tempi preannunciano i cambiamenti che incombono sul Paese, Bach capisce di non distinguere quasi più la verità dalle favole che si racconta, così le premesse dell’opera cadono sotto il peso di un mondo troppo ottuso, troppo sfuggente, a lui che ha paura di guardarlo. Alla fine del romanzo maturiamo l’idea che ogni terra, ogni anima, ogni fiume, ogni progresso stiano in bilico sopra una palude. E se a un certo punto affonda tutto, ogni sicurezza a cui eravamo ancorati si polverizza. E Allora l’unica ancora resta il “meticoloso lavoro di ricostruzione di una storia polverosa per contrastare il disordine e l’anarchia?”, come ci fa intuire l’autrice, con delle assonanze che richiamano la narrativa di Olga Tokarczuk.
 
Tra lo scempio di deportazioni ed esecuzioni di interi popoli perpetrate dal despota, che non viene mai chiamato con il suo nome, forse il romanzo può risultare eccessivamente corposo e sovrabbondante di descrizioni, personaggi e oggetti, tanto da far perdere il filo narrativo. Se si escludono i capitoli sulla vita del tiranno, la narrazione risulta troppo lenta e a tratti noiosa. Con questo non voglio sminuire l'opera, perché l'autrice s’impegna a evocare nel lettore la sensazione di essere parte viva del racconto, rivelando la sua esperienza in campo cinematografico, ma siamo lontani dalla grande affabulazione di “Zuleika apre gli occhi”.
 
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Marialuisa Bianchi

Marialuisa Bianchi

Molisana d’origine, si è laureata in storia medievale a Firenze, dove vive. Ha insegnato Italiano e Storia nelle scuole superiori. Ha appena pubblicato per i tipi di Mandragora Storia di Firenze. La preziosa eredità dell’ultima principessa Medici che ha reso grande il destino della città. Precedentemente il romanzo storico Ekaterina, una schiava russa nella Firenze dei Medici e, nel 2021, La promessa di Ekaterina (edizioni End). Ha esordito con un libro...

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