Il romanzo autobiografico è impresa sempre ardua, poiché l’autore ha a che fare, solitamente, con i propri fantasmi, il rimosso, l’elaborazione del lutto. Non è un caso se Angelo Ferracuti ha impiegato quattordici anni a scrivere il suo “La metà del cielo” (Mondadori) dove si racconta la morte per cancro della moglie quarantaduenne. Un faticoso, talvolta straziante lavorio sulla memoria, per non dimenticare, ma, allo stesso tempo, per andare oltre. Una “elaborazione permanente del lutto” – dice l’autore – che nulla tralascia (anche le cose più meschine o più ovvie) di un rapporto di coppia “quando la nostra vita insieme c’era ancora e scorreva nei suoi movimenti minimi, quando eravamo giovani e immortali, e tutto era d’oro, ogni minuto, ogni battito, ogni momento di quella vita, quel vedersi all’improvviso in soggiorno di ritorno dal lavoro, dirsi semplicemente ciao”. Nelle pagine di Ferracuti si avverte lo sforzo continuo a far sì che il dolore non diventi dolorismo, la pena soverchi la scrittura. C’è insomma un costante esercizio di controllo, di prosciugamento, perché mica è facile essere credibili (dal punto di vista letterario, s’intende) laddove ci sia da dire: “Sono colpevole, mia moglie è morta. Non l’avevo uccisa veramente, però non ero riuscito a salvarla”. O raccontare la propria arrendevolezza fino al rifugio nell’alcol, alla fuga dalla vita che comprenderebbe anche due genitori anziani da accudire e due figlie da seguire nelle inquietudini dell’adolescenza. Ma non solo. C’è pure da gestire un lutto politico, a fronte di come idee e ideali condivisi un tempo con Patrizia, si siano sfarinati. Soppiantati ormai da egoismo, rancori, livori sociali. “Patrizia, hanno vinto i barbari”, confiderà sconfortato il protagonista. Persino il micro-universo di provincia è diventato “piccola città di morti” dove tutti si sono fatti borghesi, “anche gli artigiani, gli operai, gli sguatteri, i facchini, le donne delle pulizie, i carpentieri”. È dunque percorrendo fino in fondo questo avvilimento, passandolo non di meno al vaglio della ragione e del giudizio – e grazie al sopraggiungere di una nuova figura femminile – che il protagonista trova il modo di ricollocarsi nel flusso della vita e dei giorni comuni.
***
Non abito più in quell’appartamento da dieci anni. Vado lì di rado per cercare qualche libro, recuperare una maglia, arieggiare le stanze. Le mie camicie, le scarpe con le stringhe, molti dei miei libri migliori sono a casa della moglie della mia seconda vita, Alessandra, nel centro storico, dove mi sono trasferito. Dormo in un altro letto, dalle finestre vedo un paesaggio diverso, il risveglio è differente, sono un’altra persona, anche il cane non è più lo stesso, adesso è un boxer di taglia media, pelo corto, solitamente malinconico, gli occhi lucidi e lo sguardo interrogativo.
Qualche pomeriggio arrivo là per stare da solo. Mi siedo sul divano, sto un po’ di tempo con la testa per aria a pensare, oppure fumo un mezzo toscano. L’appartamento ha ormai l’anima cupa di un luogo disabitato, le rubinetterie rilasciano ruggine, gli infissi stanno cedendo, l’odore prevalente è di muffa e umidità, i pavimenti sono polverosi. Le mie figlie vivono a Bologna e Milano, si trasferiscono qui solo nei mesi estivi. In autunno e inverno solo i topi passeggiano sui tetti e riescono a intrufolarsi in mansarda, grattano le scaffalature, rosicchiano i dorsi dei volumi.
Sotto abitano i miei vecchi genitori novantenni, che conservano dentro di loro il mondo arcaico e contadino che c’era nelle terre qua intorno, le strade di polvere e la puzza di merda, il fascismo, i partigiani nella nebbia, poi il dopoguerra con l’ansia di ricostruire della generazione bombardata, questa casa a più piani, frutto dei mutui ipotecari e delle privazioni di ogni tipo di una coppia di cattolici votati alla vita francescana, spoglia di ogni cosa superflua in questa piccola città di morti, spopolata dentro le mura antiche dove ti contano anche i passi e pensano di sapere tutto di te. Ormai i miei genitori sono solo racconti autistici e artrosi, indifferenza per il futuro e melina per sopravvivere, fanno manutenzione della solitudine ammazzando il tempo in un appartamento troppo grande. Mamma, certe volte, dice che casa sua non è questa. Mi chiede se posso accompagnarla in quella dell’infanzia dove la aspettano suo padre e sua madre, e i tre fratelli. Dice – anche se non è più capace di camminare – che vuole vestirsi, prendere la borsa, andare via. È già tardi, la stanno aspettando per la cena, mi ricorda mentre la guardo stupito. Temporeggio, poi le propongo di aspettare, «tra poco andiamo, vengo a prenderti». Lei mi guarda contenta con gli occhi dolci e un’aria soddisfatta, «tra poco» ripete, «ti aspetto» dice trepidante. Così quando lascio la stanza me ne vado sempre con, addosso, un lieve senso di rammarico.
Quando salgo al piano superiore dove vivevo con Patrizia e le figlie, in genere spalanco le finestre, lascio entrare aria buona nelle stanze, mi fermo sul balcone a guardare il paesaggio di colline che sconfinano verso l’orizzonte. In fondo vedo i Sibillini, i miei giganti della montagna, alti e rocciosi. Poi vado in cucina. È tutto al suo posto: il tavolo ovale al centro, un acquisto d’impulso in nome del design, i componibili della cucina, candidamente bianca, che avevamo comprato prima del matrimonio, la portafinestra che dà sul balcone, quello dove abbiamo fumato migliaia di sigarette e conversato sul futuro nostro, dei figli e dell’Italia, di come sarebbe cambiato il mondo e diventato più giusto.
«Non è successo, Patrizia, hanno vinto i barbari» mi scappa di dire qualche volta prima di chiudere la finestra e rientrare in soggiorno, «è stato un fallimento.» Certi giorni mi chiedo cosa direbbe lei di questo mondo, del caos che ci governa, di questo cupo e perenne tempo presente.
È quello il cuore della casa. Lì si entra e si sta durante il giorno, da lì si accede alla zona notte, con le due stanze da letto e un piccolo bagno; e sempre da quel punto si raggiunge anche la parte arredata del balcone, dove d’estate si mangiava.
Oltre il soggiorno, la porta laccata di nero che dà sulla zona notte: entro in bagno con naturalezza per lavarmi le mani. Vado a guardare le camere, la mia è perfettamente in ordine, le lenzuola ben tirate sul letto; quella delle ragazze troppo piena di cose, lo scaffale delle scarpe straripante, i libri che prima stavano sopra le due scrivanie in fondo impilati uno sopra l’altro, le tende stropicciate. Tutte le volte che le immagino piccole a dormire raggomitolate nel letto a castello, i respiri lievi nel cuore della notte, mi commuovo.
Ci sono giorni in cui salgo la scala a chiocciola in metallo che porta nello studio, quello che Patrizia chiamava “la tana”. Una piccola mansarda bassa e soffittata, alta non più di due metri, i cui finestroni danno sulla campagna, al centro una scrivania e sulle pareti libri e ragnatele. Accendo la luce e ispeziono gli scaffali, dove sono custoditi gli americani, i tantissimi London, Melville, Mark Twain, naturalmente, e l’assortimento dei Quarantanove di Hemingway che ho acquistato nelle diverse edizioni con l’impeto del collezionista, Saul Bellow e Roth, fino agli ultimi, con Carver in testa. Ognuno appartiene a una stagione della mia vita. Nella parete opposta ci sono gli italiani, Verga, Pirandello e Svevo, e poi Volponi e Fenoglio. Dello scrittore di Alba mi erano sempre piaciuti anche la fisicità e la postura, questa fierezza provinciale e allo stesso tempo il disincanto.
Se penso a quanti fallimenti ho collezionato negli anni con la scrittura, sento che tutto questo ha persino contribuito al fatto che io sia invecchiato peggio, siano aumentate le rughe sul mio viso, mi sia calata sensibilmente la vista. Sono stato uno sciocco, penso certe volte, non è servito a niente, neanche quello risolve: un romanzo ben scritto, un racconto che fila, un atto unico ben fatto. Quanto tempo ho sacrificato della mia vita, ore e ore a brigare dietro quelle frasi. Me ne vergogno persino, certe volte. Mentre scrivevo, le erbacce infestavano il giardino, non uscivo più neanche con gli amici e disertavo addirittura il cinema che tanto mi aveva appassionato una volta, ma non ero capace di farne a meno. Sono stato un cretino, e quello può considerarsi il mio fallimento maggiore, lasciarmi andare a una pulsione del genere, assecondarla, finirci dentro fino al collo e farmi completamente risucchiare.
Mia figlia Lorenza saliva talora quatta quatta la scala a chiocciola, felpata come nessuno, mi faceva tana all’improvviso e io balzavo via dallo spavento. Potevo alterarmi, biascicare qualche improperio, ma poi sorridevo divertito. In quello spazio astratto eppure concretissimo delle parole che apparivano sullo schermo del pc, mia figlia veniva a rammentarmi che là sotto in cucina, nelle camere, in tinello, c’era la mia famiglia, che c’era la vita e mi si scioglieva il tempo, quel tempo che non avrei visto e sentito mai più.
Scrivere diventava una vera e propria esperienza. Poteva capitarmi di andare a dormire esausto, amareggiato per la piega negativa che aveva preso il libro, svegliarmi la mattina, rileggere, e trovare l’incipit straordinario, talmente potente da produrre in me un immediato cambio d’umore. L’euforia si alternava allo scoraggiamento.
Adesso racconto soprattutto storie dal vero, basta finzione: viaggio. Vado e torno. Vado e torno.
[da La metà del cielo di Angelo Ferracuti, Mondadori, 2019]
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