Erri De Luca, padre di una sera

Luigi Oliveto

31/10/2018

È una sera d’inverno resa ancora più intima dalla mancanza di energia elettrica. A fare luce è la fiamma del camino. Fuori soffia il vento del nord. Un uomo sta rileggendo Pinocchio e nel balenio della fiamma e dei ricordi si accende una presenza, quella di un figlio mai avuto, perché la donna con cui lo concepì in gioventù decise di abortire. L’uomo vede il figlio adulto. Quella visione è sufficiente a far smuovere in lui il sentimento struggente della paternità, il bisogno di condividere con il figlio "un poco di vita scivolata". Inizia così a raccontargli la propria vita, le nostalgie, le scelte fatte (“la libertà che ho conosciuto è stata andare e stare dove non potevo fare a meno”), gli amori vissuti. All’inizio è un monologo, ma piano piano il figlio prende a interloquire con il padre: fa domande, considerazioni, chiede curiosità (“a proposito di maschere, di che ti vestivi a Carnevale?”). Il dialogo così diviene un inventario di sentimenti, una perlustrazione nel profondo; una rivelazione in forza delle parole, poiché “Le parole, figlio, non inventano la realtà, che esiste comunque. Danno alla realtà la lucidità improvvisa, che le toglie la sua naturale opacità e così la rivela”. Ecco in quale modo Erri De Luca ha deciso di raccontare la sua storia più intima nel libro “Il giro dell’oca”, uscito recentemente per Feltrinelli. Bella storia di un “padre inesistente” che diviene “padre di una sera”.
 
***
 
Non so da quale madre potevi uscire al mondo, figlio che non ti posso dire figlio mio.
Stasera ascolti mentre ti racconto.
Altre volte parlo a un piatto, dentro il bicchiere, al muro. Esce la voce per il desiderio di ascoltarne una.
Stasera sei presente, parlo a te.
Leggevo il libro dove un uomo anziano inventa un figlio. È un falegname e se lo fa di legno. Gli piaceva l’idea di farsi dire babbo.
Sei apparso così, costola di un’altra storia, figlio di uno che fa con le parole, materia che non viene da un albero tagliato. La carta su cui scrivo, invece sì.
Sei adulto, non so niente di com’eri prima. Non ti ho rimproverato per un gioco rischioso da bambino, né toccato la febbre sulla fronte. Ci troviamo stasera a tavola, per cena.
Una donna in gioventù mi disse di avere abortito. Stetti zitto, non contavo niente nella sua decisione presa e fatta.
Stavamo insieme e dentro una folla di coetanei. Era un amore e un tempo che non si poteva e non si badava a vita privata.
Gravidanza era allora buttare un figlio in pasto al mondo.
Tu non sei quel figlio, pezzo di vita in viaggio, scavato col cucchiaio. Poi lei non ne ha potuti avere.
Sei uno straniero, figlio, quanto la luna in cielo la mattina, che resta ancora dopo il tramonto della notte.
Ti racconto un poco di vita scivolata. Mio padre, nonno tuo, da quasi cieco diceva di sentire le nuvole con la cima dei capelli. Passano carezze sul cranio di chi non può vederle.
A noi figli fece firmare dal notaio la rinuncia alla sua eredità. Si spogliava di ogni possesso. Mi chiese di firmare.
Dissi che era impossibile negare, rinnegare l’eredità di libri, di montagne, di lingua italiana e l’insegnamento di fare mai questioni di denaro.
Mi chiese di firmare. Misi la mia più falsa firma.
A te, figlio, lascio niente. Rinunci all’eredità senza che te lo chieda. Non ti sarò di peso nella vecchiaia, che non è obbligatoria.
Non è stato il tempo finora a consumarmi, sono stato io a consumarlo. L’ho spalato nel collo di una clessidra orizzontale. Clessidra è una parola che viene dal verbo rubare.
Chi è il ladro, il tempo o noi? Mi denuncio, l’ho rubato io.
Qualche volta mi fermo, per vedere com’è il tempo senza me. Scorre lo stesso, si lascia rubare da un qualunque altro.
Se ti stringo la mano adesso, s’interrompe.
Sento la tua mano di pietra in ogni sasso liscio che tiro sopra l’acqua a rimbalzare.
La luce di candela si lascia guardare, non acceca. Scintilla nei tuoi occhi scuri, non fa lacrimare.
Nei libri antichi i cavalli piangevano la morte dei loro cavalieri. Era un’epoca che dava peso al pianto. Oggi gli occhi restano asciutti senza sforzo di contenimento.
Sono di epoca antica, piango per un lutto, una salvezza, il ricordo di chi avvisto in sogno.
Sono diverse le lacrime tra loro, leggere, accalorate, liete, gravi, inutili.
I miei occhi antichi si svegliano prima di giorno, avviano il primo caffè che è ancora notte.
Sto parlando da solo? Sto inventando la tua compagnia?
L’invento così forte che la realtà non la può pareggiare. La tua presenza basta qui e stasera a fare la mia paternità.
 
[da Il giro dell’oca di Erri De Luca, Feltrinelli, 2018]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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