La scena è nota. Possiamo vederla nella basilica superiore di Assisi, dove nell’undicesimo affresco dei ventotto, attribuito a Giotto, è raffigurato “San Francesco davanti al sultano”. Una scena ricavata dalla Legenda maior del santo, “Quando il beato Francesco per la fede in Cristo volle entrare in un grande fuoco coi sacerdoti del Soldano di Babilonia; ma nessuno di loro volle entrare con lui, e subito tutti fuggirono dalla sua vista." Episodio – conosciuto anche come “la prova del fuoco” – che tanto ha fatto discutere e che, per lo più, è stato tralasciato dalle molte biografie francescane. Si riferisce, appunto, all’incontro, avvenuto a Damietta nel 1219, tra Francesco e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. Nessun documento attendibile riferisce su cosa possano essersi detti i due. Nei decenni immediatamente successivi era piaciuto raccontare che l’incontro si fosse svolto all’insegna della cortesia, del dialogo, del desiderio di conoscere le rispettive fedi. Finché nel 1263 la biografia di Francesco scritta da Bonaventura da Bagnoregio su commissione dell’Ordine dei Frati Minori offre dell’episodio una versione molto netta. A detta del biografo ufficiale, Francesco era andato fin là per convertire il Sultano, e a un certo punto propone ad al-Malik al-Kamil una provocante sfida: si dichiara disposto a entrare dentro un fuoco insieme ai sacerdoti del Sultano. Chi ne fosse uscito indenne avrebbe dimostrato la superiorità del proprio Dio. Il Sultano, ovviamente, non approva l’ordalia. La storia così raccontata non ha mai convinto. Ci sono fondati dubbi che lo zelante Bonaventura abbia costruito una fake news per motivi politici. Il problema è che anche Giotto (o chi per esso) ebbe a ‘rilanciare’ la notizia, accreditando, dunque, l’immagine di un Francesco quasi in contraddizione con sé stesso, arrogante e poco disposto al dialogo; e soprattutto contribuendo a inibire, da allora al futuro, qualsiasi possibile incontro tra Europa cristiana e Oriente mussulmano. Muove da qui “Francesco e il sultano” di Ernesto Ferrero (Einaudi). Appassionato e documentato romanzo che – certo, con licenza di fantasia – ricostruisce uno spaccato di storia e racconta un Francesco d’Assisi che, dal viaggio in Egitto e dalla conoscenza di quel mondo spirituale, torna cambiato e arricchito. Ma troverà una realtà (anche la più vicina a lui) attraversata da contraddizioni, gelosie, ambizioni, divergenze di pensiero e di ideali. Con “Francesco e il Sultano”, l’autore intende ‘ritrovare’ Francesco in tutta la sua radicalità e follia evangelica (“unus novellus pazzus”, diceva il santo di sé) che lo rendono quanto mai difficile da definire. Ogni biografia, infatti, rischia di travisarlo, a maggior ragione quando attinga da fonti discutibili, come è accaduto nel racconto dell’incontro con il Sultano. Scrive in proposito Ferrero: “con ogni evidenza un’invenzione aprocrifa, un ‘falso d’autore’ […] per riempire i vuoti del poco che si sa con certezza di lui con quello che finisce per essere orientato dagli interessi ‘politici’ di chi lo racconta. Così hanno fatto i biografi, i papi, i pittori, i fedeli, persino i fratelli che lo avevano conosciuto personalmente”. Nelle pagine di Ferrero la rivoluzionaria testimonianza di Francesco non è solo storia, ma un affascinante romanzo d’avventura.
***
Il fuoco l’avevano dipinto per ultimo. Calava la sera, sulla Basilica superiore. Le ombre si stavano mangiando anche la quarta campata della parete nord e l’intonaco asciugava troppo in fretta. Lavoravano dall’alba, e avevano fatto soltanto una sosta a mezzogiorno, le gambe a penzoloni sull’impalcatura, per mandar giù un pugno di fave e una scheggia di pecorino. Stremati, si massaggiavano i muscoli di braccia e spalle.
Berardino, il Protomagister, fece un cenno con la testa al più giovane dei lavoranti, Puccio di Narni, il figlio del cavapietre, che aspettava sotto i ponteggi. Gli bastò alzare il mento, e il ragazzo si arrampicò svelto sulla scala. Toccava a lui.
Dipinse delle fiamme sottili che si alzavano in bell’ordine, una famiglia di serpentelli ondulati. Alla base abbozzò dei ceppi di un carminio appena più scuro, che si capisse da dove nasceva il fuoco. Che avesse una buona mano Berardino lo aveva intuito subito.
Gli occhi fissi sulla danza che faceva il pennello nelle mani del ragazzo, ad ogni singola fiammella che prendeva consistenza sul muro mandava uno dei grugniti di cinghiale per cui era famoso, come a incitarlo a fare ancora più in fretta, perché il tempo non gli bastava mai. Le rare volte che apriva bocca era per dire che poteva anche regalare denaro, ma non c’era scudo che potesse ripagare il tempo sprecato. Toccava a lui andare a rapporto dal Ministro generale e rendere conto dell’avanzamento dei lavori. A sua volta il Ministro generale doveva riferire al Cardinale protettore e al Signor Papa. Nessuno di loro era incline a intendere ragioni.
Niccolò IV, primo pontefice francescano, era stato il più impaziente di tutti. Non era tornato ad Assisi, dopo la sua ascesa al soglio nel 1288, ma il suo imperio si faceva sentire anche di lontano, e si capiva che il compimento degli affreschi era l’impresa cui teneva di più. Il Ministro generale giudicava l’impazienza e gli umori del Signor Papa dal sudore dei cavalli dei suoi messi, sempre più imbestiati. Era già tanto se non schiattavano sull’ultima salita che porta in città.
La Basilica superiore era riservata alle visite del Signor Papa, agli incontri del Capitolo generale, alla gloria della Chiesa trionfante; le pareti erano rimaste spoglie per mezzo secolo. Adesso era un formicaio che trovava requie solo la notte.
Gli altri lavoranti erano scesi a terra, e stavano a godersi la scena tutta intera, muovendo appena le teste avanti e indietro in segno di apprezzamento, con i respiri lunghi della mandria che torna dal pascolo. La fatica appena compiuta li rendeva mansueti. Un mese di lavoro, ci avevano messo. Stavano divisi in gruppi anche quando scendevano dai ponteggi, persino quando mangiavano e bevevano e berciavano e defecavano.
Da una parte quelli che dipingevano le figure umane, i più esperti, perché gli sguardi corrono subito ai volti. Chi guarda si abbandona per prima cosa al gioco delle somiglianze: quello è Gherardo, quello è Martino; quello è troppo ingrifato, questo sembra uno stalliere e dorme in piedi, quel tale mercante con tutto il denaro che ha versato non si capisce che è lui, e tirerà giù i santi dal cielo. Dall’altra quelli che campivano i palazzi sullo sfondo e non si sentivano da meno degli altri, perché fare i palazzi è complicato per via della prospettiva, del senso della profondità che bisogna dare. Provate voi a raffigurare come nella scena accanto, appena finita anche quella, l’intera città di Arezzo, da cui Francesco caccia i diavoli che la rendevano tanto rissosa, con le case bianche, rosse, gialle e verde salvia che si arrampicano in cielo con l’ardore sfrontato della giovinezza.
Stavano per conto loro anche i pittori che venivano da Roma, e si ritenevano superiori a quelli umbri e toscani. Il Protomagister non li amava perché si atteggiavano a eredi dei grandi maestri greci e latini, come se fossero i figli di Apelle o di Fabullus, e avessero imparato l’arte di dipingere a fresco direttamente da Plinio e da Vitruvio. Li aveva persino sentiti rimpiangere l’età in cui dovevano servire gli imperatori, non i cardinali: quando si poteva sfrenare la fantasia, dipingere veneri, priapi, fauni, ciclopi, scene licenziose.
I romani avevano insistito per dipingere loro i diavoli che fuggono da Arezzo alzandosi in volo sopra i tetti: mezzi arpie e mezzi pipistrelli, mostriciattoli dalle ali sozze che nulla hanno dell’angelo caduto. Gli avevano dato le facce di quelli che non sopportavano.
Un diavolo aveva il profilo di Berardino, ma lui non se ne era accorto.
Il Ministro generale, l’eminentissimo Cardinale protettore, i capomastri e il Protomagister che comandava i tre cantieri della Basilica s’erano riuniti per intere settimane a discutere in ogni minimo dettaglio i ventotto episodi degli affreschi.
Su una cosa gli eminentissimi erano d’accordo sin dalla prima volta che s’erano riuniti. Occorreva seguire alla lettera e nello spirito il racconto dell’unica e veritiera Vita del Beato Padre Francesco, diffusa in centinaia di copie come Legenda maior affinché ogni convento e ogni comunità potessero darne lettura. Aveva terminato di scriverla nell’anno di grazia 1263 il Ministro generale dell’Ordine, Bonaventura da Bagnoregio, filosofo e teologo eccellentissimo, con l’intento di metter fine alle discordie che turbavano i confratelli.
[…]
Il più rapido a maneggiare il carboncino era l’allievo di Cimabue. Disponeva gruppi di frati e cardinali, abbozzava palazzi, città, montagne, alberi con una sicurezza che risultava quasi offensiva; sapeva dove collocare esattamente la figura di Francesco in modo che lo sguardo corresse subito a lui come il ferro alla calamita. Dislocava la stessa azione su piani diversi. Trovava i gesti e gli sguardi della vita di tutti i giorni, li faceva diventare rivelatori.
Lavorava con la testa reclina sulla spalla, avvolgendo la pergamena con un largo abbraccio protettivo, quasi volesse difenderla da assalti malandrini. L’aria di compiacimento che gli scendeva dalle palpebre a mezz’asta sugli occhi, dal naso arcuato, dalla bocca sottile come una ferita poteva trasformarsi in disappunto ironico di fronte a tante parole inutili, intoppi e ritardi. Sembrava che le dispute degli illustri committenti non lo riguardassero. Continuava a disegnare, poi spingeva di scatto i bozzetti davanti a sé. I presenti si chiedevano perché non ci avevano pensato prima.
– Riesce a vedere la geometria che governa le cose del mondo, – ammetteva a denti stretti il Protomagister, – ma i corpi che dipinge sono pieni, solidi, piantati per terra, e da quelli fa sprigionare l’anima tutta intera. O, se preferite, dipinge l’ombra che l’anima produce nel suo andare.
È stato Giotto a impostare la scena della prova del fuoco così come viene raccontata da Bonaventura. Francesco deve occupare il centro della scena; alle sue spalle frate Illuminato che lo aveva accompagnato nel viaggio, protettivo e allarmato al tempo stesso. Malgrado l’assedio che gli eserciti crociati hanno messo a Damietta, il santo è riuscito ad arrivare alla presenza del Sultano, che non lo ha avviato al martirio cui aspira, secondo Bonaventura, ma accolto e ascoltato con benevolenza. Hanno scambiato parole rispettose e discusso del vero Dio. Fino a quando Francesco capisce che con le parole non riuscirà a convertire il Sultano e gli propone di accendere un gran fuoco: lui vi sarebbe entrato con i sacerdoti saraceni, si sarebbe visto quale fede è la più certa e più santa. Il vero Dio avrebbe salvato i suoi.
È questo il momento che i pittori devono rappresentare: la sfida, gli effetti che produce, la vittoria del santo. Il Sultano sta sulla destra, il suo trono è sormontato da un baldacchino impreziosito da marmi finemente intarsiati; alle sue spalle un armigero pronto a intervenire, due o tre dignitari che la sorpresa e l’ansia rendono strabici. Ha un volto sereno, cinto da una barba bionda. Tende la mano a indicare il falò. In lui non c’è turbamento, né iattanza.
Anche Francesco indica le fiamme. Non ha paura di affrontarle. I sacerdoti, avvolti nei loro mantelli, si stanno già allontanando, atterriti dalla sola idea di un fuoco che non è stato ancora acceso. Non raccolgono la sfida perché sanno che la perderanno.
Il racconto dei pittori si ferma qui, ma chi ha letto Bonaventura conosce il seguito della storia. I pavidi sacerdoti sono fuggiti, ma Francesco insiste. Dice al Sultano che entrerà nel fuoco da solo: se brucerà, sarà per colpa dei suoi peccati. Se invece le fiamme lo risparmieranno, il Sultano e il suo popolo si convertiranno alla fede di Cristo. Il Sultano dichiara di non poter accettare, perché in quel caso teme una rivolta dei suoi sudditi.
[da Francesco e il sultano di Ernesto Ferrero, Einaudi, 2019]
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