Andrea Vitali – medico-scrittore (da un po’ di anni dedito solo alla scrittura) nato e cresciuto a Bellano, paesino di 3.500 abitanti sulla sponda lecchese del lago di Como – è un autore da leggere come tonificante (e divertente) esercizio alla compassione per la vita. Fin dagli esordi predilige raccontare storie comuni, piccoli mondi. In molti ricordano il romanzo che lo rivelò al grande pubblico, “Una finestra vistalago” (2003), in cui scorrono cinquant’anni di vita paesana, dagli anni Venti ai Settanta del secolo scorso. Con l’ultimo libro, “Eredi Piedivico e famiglia”, Vitali si allontana per poco più di un centinaio di chilometri da quel mondo riflesso sulle acque lacustri, ma approda ugualmente a una storia racchiusa in una contenuta geografia di luoghi e di esistenze. Siamo a Manerbio, nella Bassa bresciana (del resto, dice l’autore, “La pianura è sorella del lago. Per questo ne ho subito il fascino ancor prima di conoscerla, quando leggevo i racconti di Guareschi”). In questa pianura cosparsa di cascinali, pioppi, rogge, si svolge, tra gli anni Venti e Sessanta del Novecento, la saga dei Piedivico. A innescarne il racconto è Oreste Piedivico, classe 1901, apprezzato veterinario nella condotta di Manerbio, che con lodevole impegno svolge il suo lavoro scorrazzando per le campagne a bordo d’una precaria motocicletta Benelli. Oreste gode di diffusa stima: per la sua generosità e competenza, per un’attitudine alla professione medica che gli permette, con identica perizia, di far nascere un vitello o, all’occorrenza, un bambino. Resiste per un po’ allo stato di celibe, finché non sposa Lidovina Anzibene, figlia unica di un allevatore. Mettono al mondo Felice (per tutti Felicino, in considerazione del suo fisico gracile) prevalentemente accudito da Versalia, ragazza di campagna bene in carne che, negli anni, diverrà fedele tata di famiglia. Oreste si rivela marito inadeguato, ma padre amorevole; Ludovina una moglie e madre alquanto smarrita, anche a causa della sua debolezza di salute, tanto che per un periodo dovrà ricoverarsi in sanatorio. Non può dirsi, insomma, una famiglia felice. Lo diventerà ancora meno quando, a cavallo della scoppiettante Benelli, Oreste muore in un incidente stradale. Per chi resta la vita continua. Felicino, brillante negli studi, si laurea in legge (ciò che il nonno avrebbe voluto per il figlio Oreste) e si accasa con Luigina Gambetta, intraprendente e sagace donna di città. Ludovina convola a seconde nozze con Ottaviano, il contadino che era stato suo fidanzato prima di legarsi al meglio messo veterinario. A un certo punto entra in scena anche il fratellastro di Felicino, Silverio Pendoli, un campagnolo schietto e concreto che nello sviluppo del racconto, e soprattutto dei sottesi significati, acquisterà un ruolo dirimente. Le due famiglie – l’una di città, l’altra di campagna – vanno sempre più distanziandosi per mentalità, stili e scelte di vita. Ad accomunarli è però un elemento: una irresolutezza degli affetti, che inibisce in loro la disposizione a volersi pienamente bene. In questa saga familiare di gente comune non sono tanto i fatti a dare sostanza al racconto (ordinarie vicende di sventure, infedeltà, insofferenze esistenziali) ma giustappunto le ritrosie del cuore. E il colpo di scena con cui si chiude il romanzo sembra offrire, in proposito, una qualche indicazione che ha proprio a che fare con la decifrabilità e magari con la liberante compiutezza dei sentimenti. Perché le persone vanno amate – se decidiamo di amarle – per ciò che sono.
***
Classe 1901, nato a Manerbio, provincia di Brescia, Oreste Piedivico di professione era veterinario. Figlio di notaio, nonostante i pacati inviti – paterni e non solo – a considerare di proseguire nell’attività di famiglia, visto che la strada gli era già stata spianata, fin da giovane aveva dimostrato un’innata passione nei confronti degli animali che niente e nessuno erano riusciti a scalfire. L’ultimo ad arrendersi era stato proprio il genitore. Aveva alzato bandiera bianca con un sorriso e s’era poi convinto di aver fatto bene.
Il ragazzo compì gli studi universitari presso la scuola di Parma, divenendo uno degli allievi prediletti di Virginio Bossi, anatomico e chirurgo di grande levatura. La passione per gli animali era tale che il giovanotto cercava ogni occasione per fare pratica, rendendosi disponibile a dare consigli, aiutando nel caso di parti difficoltosi, fratture o ferite da suturare e, già ben prima che ne avesse ottenuto il diritto, in parecchi cominciarono a chiamarlo dottore. All’età di venticinque anni, laureato infine, cominciò a esercitare a pieno titolo.
Non aveva un ambulatorio vero e proprio, né aveva mai pensato di dotarsene.
– Inutile, – ripeteva a tutti, – denaro buttato.
Le stesse parole che aveva detto a suo padre quando costui voleva fargliene dono per la laurea.
Denaro buttato a ragion veduta, spiegava con il sorriso sulle labbra, in modo un po’ guascone, ma senza lasciare spazio ad alcuna replica.
I suoi clienti infatti erano cavalli, vacche, vitelli, buoi, esseri che quando stavano male andavano visitati a casa loro. Spesso, però, veniva anche consultato, ma così, alla buona, per animali di piccola taglia, cani soprattutto. Talvolta le richieste di un parere avevano luogo per la strada. Il Piedivico non faceva una piega, ascoltava, rispondeva. Poi alla fine, «Grazie dottore», o il più delle volte, stante la confidenza, «Grazie Oreste», e via, una pacca sulla spalla come saldo dell’onorario. Quello il risultato del legame che lo univa ai suoi concittadini. La voce circa la sua abilità e disponibilità – era pronto a scattare a qualunque ora del giorno e della notte – si sparse presto nelle campagne attorno a Manerbio, raggiungendo le numerose cascine del territorio. E non era nemmeno un fatto eccezionale che qualche allevatore si spingesse a chiedergli un consulto su un acciacco proprio o di un familiare, senza meravigliarsi poi che il Piedivico ci avesse azzeccato. In un immaginario catalogo dei suoi interventi meglio riusciti spicca una perineotomia eseguita sulla moglie di un allevatore nella cui stalla il Piedivico stava aspettando il momento buono per far nascere un vitello. Il caso aveva voluto che quella sera, anzi era ormai notte, la donna fosse entrata in travaglio e che le cose si fossero messe male fin da subito. Il marito, davanti alle sue smanie più che giustificate, era andato nel pallone; non sapendo che fare aveva chiesto al Piedivico di lasciar perdere la vacca e di correre a chiamare la levatrice. Ma Oreste aveva dimostrato tutta la calma e la freddezza che la circostanza esigeva.
– Ci penso io, – aveva detto.
– In che senso? – aveva chiesto quello, disorientato.
– Si fidi, – aveva risposto il veterinario. – Andiamo.
Dove volesse andare, l’allevatore lo aveva capito quando Oreste s’era avviato verso la casa. Aveva tentato di opporsi a ciò che ormai immaginava il Piedivico stesse per fare. Ma quest’ultimo era stato chiaro, lasciando a lui la scelta.
– Di qui a qualche ora questa cascina potrebbe avere un neonato e un vitello. Potrebbe però anche capitare che nessuno dei due veda la luce. Non c’è tempo da perdere, bisogna decidere in fretta. Io sono pronto, lei?
L’allevatore era rimasto senza parole, l’altro aveva sdrammatizzato, scherzando sul fatto che, in certe situazioni, non c’era molta differenza tra esseri umani e animali.
La storia della doppia assistenza al parto effettuata con successo era rimbalzata di cascina in cascina per settimane e aveva contribuito a rendere ancora più solida la fama di Oreste.
All’inizio della professione il dottor Piedivico girava su calesse o a cavalcioni di una delle rare motociclette in circolazione, ma seduto alle spalle del proprietario. Il mezzo a due ruote lo affascinava e talvolta chiedeva di potersi mettere lui alla guida, per godere appieno l’ebbrezza della velocità. Velocità per modo di dire: essendo il più delle volte, quelle trappole, dei bastardi assembramenti di pezzi raccattati qua e là, che tenevano ben stretto il mistero su come facessero a viaggiare.
Data la passione, in tanti si domandavano perché il Piedivico non ne comprasse per sé una nuova di zecca. Non gli mancavano certo i mezzi, il padre notaio, che se n’era andato quando lui aveva ventisei anni – la madre l’aveva persa da bambino –, gli aveva lasciato abbastanza per togliersi qualsivoglia sfizio. Non era per taccagneria come qualcuno insinuava, sparlando e dicendo che i ricchi erano così: più ne avevano e più ne volevano avere. Oreste Piedivico s’era dato l’obbiettivo di soddisfare le proprie esigenze contando sul proprio lavoro e con ciò che grazie a questo riusciva a mettere in tasca: l’unico pezzo di eredità paterna di cui approfittava era la casa, una villetta a due piani dove il genitore aveva avuto anche lo studio notarile. Il denaro non lo aveva toccato, quasi fosse una sorta di rifugio in cui riparare se le cose fossero andate male, e non solo sotto l’aspetto economico. Non correvano tempi tranquilli e Oreste, che dalla politica s’era sempre tenuto alla larga, asserendo che i suoi clienti non si occupavano di certe cose, non aveva potuto fare a meno di avvertire un’aria dentro la quale poteva respirare beato solo chi si piegava a un credo di obbedienza cieca, assoluta: c’era poco da stare allegri dopo che il regime aveva soppresso la libertà di stampa, quella di riunione e di parola, ripristinato la pena di morte, assunto altre misure coercitive che rendevano bene l’idea di cosa sarebbe toccato a chi avesse osato criticare questo o quel provvedimento. Nemmeno i tiepidi come lui potevano stare sereni, e appunto per non correre rischi di sorta Oreste Piedivico cercava di confondersi nella massa assistendo, senza alcun vero spirito di parte, alle manifestazioni che anche a Manerbio venivano allestite per celebrare il regime: l’anniversario della marcia su Roma, il 21 aprile e altre date tipo quella in cui si commemorava il camerata Marco Griglia, rimasto ucciso durante l’assalto a una camera del lavoro.
Fu all’età di ventisette anni che riuscì ad acquistare una motocicletta con i propri guadagni, una sedicente Benelli, di terza mano però. L’aveva recuperata presso un estroso e altrettanto sedicente meccanico di Pontevico, certo Sgualazzi, che gli era stato consigliato dal farmacista; quest’ultimo si mostrò assai meravigliato che Oreste non avesse mai sentito parlare né di lui, né della sua capacità di mettere mano e sistemare qualsivoglia congegno meccanico e non.
– Può darsi che quello che cerchi lo trovi lì, – era stato il suggerimento, e il Piedivico lo aveva subito seguito.
L’officina dello Sgualazzi era una specie di refugium peccatorum dove l’artigiano ricoverava, per sottoporli alle sue cure, attrezzi di ogni genere che i legittimi proprietari ritenevano ormai inutilizzabili: carriole, setacci, aratri, pale per forni, tappatrici, contenitori per il latte, gioghi. Il Piedivico aveva apprezzato l’accoglienza e sopportato la facondia dell’uomo, che aveva illustrato con orgoglio quasi ogni pezzo, come se fosse la guida di un museo; vanto della collezione erano una lavatrice di fabbricazione inglese e un asciugapanni in ferro, riportati in vita grazie ad autentici miracoli di manualità. Quando infine lo Sgualazzi si era ricordato di chiedere quale fosse il motivo che aveva spinto l’ospite ad andare da lui, il Piedivico aveva appunto risposto che gliel’avevano indicato perché forse lì avrebbe trovato quello che cercava.
Biciclette? Ne aveva di tutti i tipi, aveva replicato lo Sgualazzi.
– Veramente speravo in una motocicletta, e che non mi facesse spendere troppo, – aveva precisato Oreste.
Il viso del meccanico s’era disteso in un sorriso.
– Seguitemi.
Giunto sul fondo del locale aveva mostrato la Benelli, così almeno recitava il serbatoio, coperta da una vecchia trapunta.
– Di terza mano, – aveva chiarito.
Acquistata dal figlio di un avvocato bresciano, ceduta al figlio di un allevatore di Robecco d’Oglio che più che andarci in giro l’aveva usata per cadere o andare a sbattere, l’aveva ritirata lui in condizioni terminali un sei mesi prima senza sganciare una lira. Il genitore del ragazzo non voleva vederla mai più. Dovrei pagarvi io per portarmela via, gli aveva detto.
– È mia, – aveva dichiarato Oreste, decretando così l’inizio di una nuova fase della propria vita.
Con quella aveva preso a scorrazzare per i casali, senza darsi pensiero dell’ora e del tempo. Nemmeno del futuro in verità. Più di lui al suo futuro pensavano altri quando, sorridendo, gli chiedevano se non fosse suonata l’ora di sposarsi. In quei casi la sua risposta era sempre stata pronta.
– Sposarmi? E contro chi?
Tanta curiosità era ormai diventata un tormentone. Mancava solo, rifletteva tra sé il Piedivico, che a domandarglielo fosse una delle bestie che curava, una vacca, oppure un cavallo.
[da Eredi Piedivico e famiglia di Andrea Vitali, Einaudi, 2024]
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