Epidemia e pandemia. Un punto di vista “leopardiano”

Sara C.

26/05/2020

Si definisce epidemia (dal greco “sopra il popolo”, “sopra le persone”) il diffondersi di una malattia, in genere una malattia infettiva, che colpisce quasi simultaneamente una collettività di individui, con una ben delimitata diffusione nello spazio e nel tempo e che ha una stessa origine. Mentre si definisce pandemia (dal greco "tutto il popolo") una malattia epidemica che, diffondendosi rapidamente tra le persone, si espande in vaste aree geografiche su scala planetaria coinvolgendo, di conseguenza, gran parte della popolazione mondiale, nella malattia stessa o nel semplice rischio di contrarla. “Sopra il popolo”, “tutto il popolo": questa l’etimologia dei due termini analizzati. La prima descrizione indica, in qualche modo, la condizione umana di sottomissione rispetto alla potenza della Natura e dell'Universo stesso; la seconda, ribadisce i concetti di uguaglianza e tolleranza, spesso dimenticati dalla società moderna, concentrata solo sul progresso tecnologico e sul conseguimento di un profitto economico. Partendo dalla prima considerazione, possiamo individuare non solo riferimenti alla condizione attuale, ma anche ad eventi avvenuti in passato. Non era forse nel 1630 la grande peste descritta da Alessandro Manzoni? Non fu negli anni ’20 del ‘900 che si diffuse l'influenza spagnola? E le epidemie di tifo e colera? L’umanità ha sempre affrontato situazioni simili alla sfida affrontata oggi. Ciò nonostante, l'uomo non ha mai imparato nulla, né sulla Natura, né tantomeno, sulla pericolosità della presunzione di credersi superiore a tutto ciò che lo circonda.

Lo scriveva già Leopardi nell' ‘800, il secolo del progresso, del Romanticismo, dei grandi moti rivoluzionari. Citando il suo nome, i giovani penseranno subito al classico stereotipo che, purtroppo, viene attribuito al poeta: depresso. Se, tuttavia, analizziamo il suo pensiero, cogliendo il significato vero dei temi e delle riflessioni, senza fermarsi ed arrendersi al carattere pessimistico e negativo spesso presente nelle sue liriche, possiamo individuare delle somiglianze tra quella visione e l’oggi. Leopardi nell’evoluzione del suo pensiero passò da un pessimismo definito “storico" ad uno “cosmico" ed infine ad uno “combattivo", associando il cambiamento del suo pensiero ad una diversa percezione della Natura. In particolare, nelle “Operette Morali", opera necessaria per comprendere la critica del poeta all’antropocentrismo, possiamo cogliere, attraverso l’utilizzo di un tono spesso sarcastico, un significato amaro e duro. L'uomo ha sempre creduto che tutto ciò che è stato creato, sia stato realizzato per il suo esclusivo utilizzo. In realtà, secondo il poeta, la Natura è indifferente alla condizione umana e se un giorno l'uomo dovesse estinguersi, la Terra continuerebbe ad esistere e, di conseguenza, la Natura continuerebbe il suo ciclo vitale.

Dunque, l’esistenza umana, così come la sua scomparsa, è totalmente irrilevante per l’Universo e per l’ordine naturale delle cose. Molte opere importanti sono state realizzate dall’uomo, anche per un buon fine. Ma se prendiamo in considerazione le recenti osservazioni, non solo degli esperti e degli scienziati, ma anche le percezioni dell’uomo comune, attento e sensibile, possiamo udire il grido della Natura… sofferente, straziata, consumata, distrutta dall’agire umano. In questi quasi tre mesi di lockdown, gli uccelli sono tornati a cantare, le grosse nubi grigie che fuoriuscivano dalle industrie e coprivano la meravigliosa luce del sole si sono schiarite, le stelle sono comparse nei cieli delle grandi città, e la terra è tornata un po' a respirare. Ciò dimostra, da un lato, l’impotenza umana di fronte alla Natura, alla Terra e all'Universo e dall’altro, come sosteneva Leopardi, la sua presunzione nel considerarsi padrone di qualsiasi cosa lo circondi.

Prendendo in considerazione il termine, pandemia, la sua etimologia è “tutto il popolo”. La malattia non conosce confini, né mentali né fisici. Non ci sono muri, né tantomeno caratteristiche differenti tra un francese, un italiano, un americano, un cinese o chicchessia. Purtroppo, ciò che è successo in questi ultimi mesi, ha portato a considerare gli altri in maniera negativa. È risaputo che la mente umana tende a rifiutare il diverso. La paura, accecata dall’impossibilità di giustificare una determinata condizione e trovare conseguentemente una soluzione, rende poi facile il pregiudizio. Ciò, tuttavia, non giustifica un atteggiamento intollerante nei confronti di una cultura, di una caratteristica della pelle o di una lingua diversa. Il fatto che la pandemia sia partita da un luogo, piuttosto che da un altro, non identifica la posizione di partenza e i suoi abitanti come colpevoli. Un po' come descrisse il Manzoni nei “Promessi Sposi", nell'appendice al romanzo, “Storia di una colonna infame" (in cui due presunti untori, accusati di esser tali dal popolo vengono torturati e uccisi) abbiamo, magari inconsapevolmente, additato un popolo come l’untore di questa malattia. Risse, insulti, razzismo. In un mondo in cui la globalizzazione è diventata il cardine dell’esistenza di ognuno, quest'ultima parola non dovrebbe neanche avere più significato.

Personalmente, il Covid-19 mi ha tolto molte cose: le mie lezioni settimanali di danza, la possibilità di vedere i miei compagni ogni giorno, l’opportunità di alzarmi ogni mattina e prepararmi per andare a scuola. Mi è stata tolta la festa del mio diciottesimo compleanno, che avevo tanto atteso e che, purtroppo, non ho potuto organizzare. Mi è stata tolta la possibilità di parlare con alcuni dei miei affetti più cari; parlare davvero, non attraverso un dispositivo elettronico. Tuttavia, in questo periodo, che molti hanno descritto come una violazione del diritto costituzionale alla libertà, ho compreso le vere amicizie e ho riscoperto il piacere di stare in famiglia. Ogni esperienza che toglie qualcosa, insegna ad apprezzare maggiormente ciò che si possiede. Questa consapevolezza può portare all’apprendimento di una nuova abilità, culinaria, sportiva, artistica o, più profondamente, alla riscoperta di se stessi e della famiglia. In conclusione, possiamo considerare le pandemie armi a doppio taglio. Che siano esse procurate volontariamente o che siano invece improvvise e inaspettate, sarà sempre l’uomo a perire, senza distinzione di razza o genere. Viviamo un periodo particolare per tutti. Un periodo che ha colto l’umanità alla sprovvista, che ha messo in luce molti problemi, sociali, economici, lavorativi, sanitari. Dunque, come sosteneva e sperava Leopardi ne “La ginestra o fiore del deserto", la solidarietà e l'unione dell'intera umanità, sono le uniche armi contro un nemico invisibile.
 
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Sara C., studentessa dell’Istituto di Istruzione Superiore Sallustio Bandini di Siena
 
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