«Che figlio è quello immune dal bisogno? Le creature che hanno urgenza di noi non sono mai quelle che scegliamo. Ne vorremmo altre, che invece sfuggono come se traessero energia dalla nostra volontà di renderci insostituibili. Il bisogno è una dinamica squilibrata.» Sta qui la chiave di lettura del romanzo “Insegnami la tempesta” di Emanuela Canepa (Einaudi), storia di un tormentato rapporto madre/figlia. La madre è Emma, che ha avuto quella figlia da giovanissima (rimase incinta quando frequentava ancora l’università). E da allora in poi, la sua esistenza non ha mai registrato scelte, ma ripieghi (coscienziosi ripieghi). Tali sono stati il matrimonio, il lavoro, la vita. Una donna che si è dovuta accontentare, e perciò insoddisfatta. Ma non solo. È quanto mai avvilita per come non sia riuscita a rapportarsi, sul piano dei sentimenti, con la figlia Matilde (“Sapeva solo che sempre più di frequente le capitava di sentirsi inutile. Una madre superflua.”) Matilde, infatti, è una figlia completamente autonoma, non solo per come sa gestirsi nella vita pratica (cosa che, del resto, qualsiasi genitore si auspicherebbe) ma per l’indipendenza affettiva che mostra nei confronti della madre (già diverso è l’atteggiamento verso il padre). Insomma, Matilde prescinde dal bene materno: “Non c’era nulla in lei dell’adolescente irrequieta. Eppure, anche se formalmente non metteva in discussione l’autorità di sua madre, era da tempo ormai che viveva come se non ne avesse bisogno. Matilde era ineccepibile ma scostante.” La distanza tra le due donne si farà incolmabile allorché la diciottenne Matilde – destini che vanno ad assomigliarsi? – informa i genitori di essere incinta. L’allontanamento tra madre e figlia diventa anche fisico, poiché Matilde scappa di casa e va a rifugiarsi da una vecchia amica della madre, Irene, fattasi suora di clausura. Anche la scelta di Irene (roba di quasi vent’anni fa) era stata per Emma un ‘tradimento’, un ‘prescindere’ dal suo affetto, poiché l’amica se n’era andata in convento da un giorno all’altro, senza dirle niente, in ‘autonomia’. Il romanzo inizia proprio con Emma che, determinata e bellicosa, va suonare alla porta del convento per esigere un colloquio con sua figlia. A quel punto le tre donne si rincontrano – soprattutto nel profondo dei rispettivi tormenti – a dipanare i fili che ogni affetto intriga nella difficile operazione di legare senza soffocare, unire lasciando liberi.
***
La furia del temporale ha spogliato gli alberi, le aiuole sono ridotte a un pantano coperto di foglie, e il selciato è una costellazione di buche piene d’acqua su cui si riflettono le nubi spazzate via a larghe folate.
Emma riparte e parcheggia sotto una pergola. È rimasto in piedi a malapena lo scheletro. Il tetto della macchina sfiora le code dei rampicanti strappati dal vento che oscillano ancora.
Spegne il motore. Ricomincia a farle male la testa. Un segmento di luce pulsante connette fra loro le tempie. Non importa, si dice. Non è grave. Non è un buon motivo per fermarsi.
Guarda in alto, verso il cielo. Il movimento le causa una fitta alla testa, e il dolore si fa acuto salendo a ondate.
Afferra la borsa ed esce dall’auto. Si avvicina alla chiesa.
L’edificio è modesto. Una facciata in mattoni scandita da quattro lesene e due nicchie vuote, senza statue, come dopo un passaggio di barbari. Non ci sono fregi o decorazioni. Solo una cornice in marmo spezzata in due punti che definisce la linea del portale.
È tutto chiuso. Affisso su un pannello in legno c’è un minuscolo cartello protetto da un vetro che riporta gli orari delle messe.
Alle spalle della chiesa si allunga in perpendicolare la struttura imponente del monastero, preceduta da un portico ad arcate regolari che inclina ad angolo retto e segue il fianco della navata. In fondo c’è un ingresso, chiuso. A distanza però Emma riconosce la pulsantiera di un citofono.
Costeggia il fianco della chiesa e mentre cammina si impone lunghi respiri. Si prepara come un pugile prima di un incontro. È un atleta che alimenta l’accanimento, l’ostinazione.
Arrivata al citofono preme il pulsante con violenza. Pensa alle parole più adatte a intimidire, ma subito si rende conto che non le servono, perché nessuno le chiede nulla. Non fa nemmeno in tempo a dire il suo nome che una voce le risponde: le apro, ma abbia pazienza, mi ci vuole tempo. Poi la porta si spalanca da sola.
Questo la sbilancia. Era preparata a fronteggiare un rifiuto.
Entra e si ritrova in un ambiente di passaggio di forma squadrata. Di fronte a lei si apre l’ampia grata del parlatorio.
Si lascia alle spalle l’ingresso e si sposta in una sala disadorna. Solo un paio di poltrone molto vecchie e un divano coperto dalla stessa tappezzeria pesante. Sulla parete un grosso crocifisso pende dall’alto, sostenuto da una catena.
Prova a sedersi, ma le è impossibile rimanere ferma.
Si rialza guardandosi intorno. Sopra la porta c’è una stampa con la riproduzione di un’icona. Non la vede bene, troppo alta sullo stipite. Si avvicina.
La Vergine sostiene il bambino che la fissa intimorito e le si aggrappa. Il figlio di Dio ha bisogno di sua madre. Lei non lo ricambia, e non mette alla prova la natura di quella dipendenza. La dà per scontata. Rivolge invece lo sguardo verso il mondo e gli occhi sono duri, pieni di rimprovero, come se paragonasse l’inviolabilità del suo spazio materno, esemplare e compiuto, all’imperfetto mondo dei supplici.
Emma si gira e si mette in ascolto. Cerca di captare il rumore di un suono in avvicinamento, ma non sente nulla. Da quando è entrata lí dentro il silenzio sembra essere piú compatto. Avverte intorno a sé una densità quasi vischiosa.
Dalla finestra vede l’avancorpo del porticato allungarsi. Al centro del muro in mattoni si apre un grosso cancello di metallo sbarrato da una catena.
Un fruscio alle sue spalle. Per un istante, prima di girarsi, immagina che possa essere Irene. Tutta la rabbia che ha covato nel corso del viaggio diventa fisica e palpabile. Si volta, pronta a un gesto di forza, ma la donna che ha davanti non può essere lei.
È una suora giovane, in abito da lavoro, con un grembiale grigio che le copre il petto e si allaccia in due giri intorno alla vita. Non può avere piú di vent’anni. Sorride.
– Buongiorno. Scusi se l’ho fatta aspettare.
Emma fa un cenno. – Non importa. Cerco mia figlia, Matilde Montanari.
La suora ha un’espressione incerta. – Mi spiace, non so chi sia. Non abbiamo ospiti in questo momento. La foresteria è chiusa.
Emma fiuta la menzogna. Si avvicina per fronteggiare la donna. – So per certo che c’è. Ho ricevuto una chiamata ieri sera.
La suora continua a sorridere. – Una chiamata da qui, dice?
– Era una delle sue compagne. O almeno suppongo che lo sia.
La suora però la guarda e non dice niente.
– Irene Scarpa, – scandisce Emma.
È cosí che la chiamano ancora, lí dentro? Non ne ha idea. Sono anni che non ci pensa. Anni che non dice il suo nome.
La suora fa segno di avere capito. – Sí, è qui, ma è impegnata. Vuole lasciare un messaggio?
Emma sente con chiarezza che la resistenza della donna va smontata. Che deve attaccare. Che non può essere accomodante per nessuna ragione. Alza la voce.
– Io non me ne vado finché non mi fate parlare con mia figlia. Piuttosto chiamo i carabinieri.
È una bugia. E se lo facesse non servirebbe a nulla. Matilde è maggiorenne e si è allontanata da casa di sua spontanea volontà. Emma spera solo che la suora non lo sappia.
La giovane fa un mezzo passo indietro.
– Mi dispiace, ma senza appuntamento non è possibile –. Abbassa la voce. – È un convento di clausura. Le assicuro che in questi giorni non ospitiamo nessuno.
Emma non la lascia neppure finire. – Chi è il responsabile qui?
– Come dicevo, occorre un appuntamento.
– Non mi muovo finché non mi ci fate parlare. Veda lei cosa le conviene.
La donna aggrotta le sopracciglia. Finalmente smette di sorridere. Poi piega la testa. – Un momento –. Ed esce.
Rientra qualche minuto dopo. – Venga. La accompagno –. Oltrepassano una porta a vetri ed Emma ha la certezza che Matilde sia lí, a pochissima distanza da lei. Il cuore le si allarga in un riflusso d’amore che la collera non riesce ad arginare.
Scaccia il pensiero. Le occorre lucidità.
Segue la suora. Attraversano due lunghi corridoi perpendicolari su cui si apre una fila di finestre altissime. Oltre i vetri c’è un bosco di alberi fitti e assiepati che formano un fronte discontinuo sulla linea dell’orizzonte.
Poi la suora si ferma davanti a una porta massiccia, stretta e bassa come tutte quelle che Emma ha visto finora.
– Suor Irene può riceverla, – dice. Sfiora lo stipite con le nocche e abbassa la maniglia facendosi da parte senza entrare.
Irene la aspetta in piedi dietro la scrivania, al centro della stanza.
Emma ha il tempo di osservarla. Le sembra molto diversa. I capelli ancora neri sono tagliati corti, una ruga orizzontale le segna la fronte. Indossa una tonaca grigia, lunga e dritta, ma non porta il velo.
Per un secondo Emma oscilla, poi l’impulso alla caparbietà le raddrizza la schiena. Cerca una parola inequivocabile che metta subito in chiaro come stanno le cose tra loro. Non la trova. Si chiude la porta alle spalle e si avvicina alla scrivania.
– Matilde aveva detto che saresti arrivata. Non era necessario, – dice Irene quieta. – Ho chiamato solo per tranquillizzarti.
– Dimmi dov’è.
Irene ha un’esitazione, un tremito delle labbra che ha la sembianza di un sorriso.
– Per favore, siediti. Parliamo.
[da Insegnami la tempesta di Emanuela Canepa, Einaudi, 2020]
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