Dopo dieci anni è tornata Olive Kitteridge, il personaggio creato da Elisabeth Strout, acuta narratrice della vita di provincia e della ‘normalità’, che guardata bene non è mai normale. Tale, infatti, è il talento della Strout: saper raccontare la condizione umana laddove, nelle tante declinazioni della banalità, può rivelarsi atroce, bislacca, tenera, cinica. Lo fa attraverso lo sguardo (spesso impietoso) di Olive Kitteridge, che in un’appartata (fittizia) località del Maine (lo Stato più nordorientale dell’America) osserva le anguste esistenze dei suoi concittadini. Guarda, giudica, ragiona; e in virtù di questo sguardo penetrante, alla fine quelle vite risultano essere il riflesso di un più vasto mondo. Ecco dunque “Olive, ancora lei”, pubblicato da Einaudi per la traduzione di Susanna Basso. Olive Kitteridge, insegnante di matematica in pensione e in sovrappeso, la troviamo ancora lì, nella immaginaria località di Crosby, sul mare. Non ha smesso di scrutare il piccolo universo che la circonda. È una forma di scontrosa vicinanza agli altri, addirittura di affetto. La vita di Olive è un po’ cambiata. Suo marito Henry, il farmacista del paese, è morto. Lei, nonostante dica di essere “una vecchia ciabatta” ha trovato pure un nuovo amore nella persona di Jack Kennison, docente di Harvard in pensione e anch’esso vedovo. Poche sono le cose che hanno in comune, ma quest’amore senile riaccende desiderio e persino gelosia. Non è cambiato, comunque, il suo atteggiamento scostante, polemico, schietto (troppo schietto) verso tutti (compreso il figlio podologo che vive altrove). Strano modo di relazionarsi agli altri e di cercare con essi una compassionevole sintonia. Perché ciò accade in questo ‘romanzo di racconti’, dove ogni capitolo è storia a sé, ma tutti insieme vanno a formare un continuum teso a cogliere le molte epifanie che si annidano anche in una sonnacchiosa vita di provincia, dentro esistenze minime. Insopportabili, dunque da amare.
***
Travaglio
Due giorni prima Olive Kitteridge aveva fatto nascere un bambino.
L’aveva fatto nascere sul sedile posteriore della macchina; la macchina era parcheggiata sul prato davanti a casa di Marlene Bonney. Marlene aveva organizzato una festa per il nascituro della figlia, e Olive aveva deciso che non le andava di posteggiare dietro le altre macchine in fila sullo sterrato. Aveva paura che, se qualcuno parcheggiava dietro di lei, poi non sarebbe più riuscita a uscire; e Olive voleva poter uscire. Perciò, aveva parcheggiato sul prato davanti a casa, e meno male, perché quella babbea – una certa Ashley, biondissima, amica della figlia di Marlene – era entrata in travaglio, e Olive se n’era accorta prima di tutti gli altri; erano tutte sedute in cerchio in salotto su seggiole pieghevoli, e aveva visto Ashley, che stava seduta vicino a lei, ed era incinta all’ultimo stadio, e si era messa un top rosso di maglina elastica per sottolineare la gravidanza, uscire dal salotto, e Olive aveva subito capito.
Si era alzata e aveva trovato la ragazza in cucina, piegata sul lavandino che diceva: – Oh Dio, oh Dio, – e Olive le aveva detto: – Sei in travaglio, – e quella scema aveva detto: – Credo anch’io. Ma il termine è tra una settimana.
Che stupida.
E che stupida anche la festa. Ripensandoci, seduta nel salotto di casa sua guardando il mare, Olive non si capacitava della stupidità di quella festa. Lo disse forte. – Stupida, stupida, stupida, stupida –. Poi si alzò, andò in cucina e si sedette lì. – Dio, – disse.
Faceva dondolare un piede.
Il grosso orologio del suo defunto marito Henry che Olive portava al polso da quando lui aveva avuto l’ictus quattro anni prima, diceva che erano le quattro. – Va be’, – disse, e prese la giacca – era giugno, ma non faceva caldo quel giorno – e la grossa borsa nera e montò in macchina – che era ancora tutta sporca di quella roba appiccicosa della babbea, anche se Olive aveva cercato di pulirla come poteva – e andò al negozio di Libby a comprarsi un involtino all’aragosta, poi proseguì fino al Capo e, restando seduta in macchina, si mangiò l’involtino guardando Halfway Rock.
C’era un tizio su un pick-up posteggiato lì accanto, e Olive lo salutò dal finestrino con la mano ma quello non rispose. – Accidenti a te, – disse lei, e un pezzetto d’aragosta le atterrò sulla giacca. – Oh, mondo boia, – disse, per via della maionese – vedeva la piccola chiazza scura – che le avrebbe rovinato la giacca se non trovava subito un po’ d’acqua calda. La giacca era nuova, se l’era fatta lei il giorno prima cucendo i pezzi di un tessuto imbottito a spirali bianche e azzurre, e assicurandosi che fosse lunga abbastanza da coprirle il sedere.
Le prese una fitta di ansia fortissima.
L’uomo sul pick-up stava parlando al cellulare e di colpo scoppiò a ridere; lo vide gettare indietro la testa, gli vedeva perfino i denti nella bocca aperta. Poi avviò il motore e fece manovra in retro, continuando a parlare, e Olive rimase sola con tutta la baia davanti, e la luce che scintillava sull’acqua e gli alberi dell’isolotto, ritti sull’attenti; gli scogli erano bagnati, la marea calava. Olive sentì il rumore sommesso del proprio masticare e l’assalì un senso di profonda solitudine.
Era per via di Jack Kennison. Lo sapeva che era a lui che stava pensando, a quell’orrendo pallone gonfiato carico di soldi che aveva visto per qualche settimana in primavera. Le era piaciuto per un po’. Si era perfino coricata a letto con lui un giorno, ormai un mese fa, vicina vicina, tanto da sentirgli battere il cuore mentre stava con la testa appoggiata sul suo petto. Che ondata di sollievo, all’inizio; ma poi si era presentata fragorosamente la paura. A Olive non piaceva avere paura.
E così, dopo un po’ si era alzata, e lui le aveva detto: – Resta, Olive –. Ma lei non era rimasta. – Chiamami, – le aveva detto. – Mi farebbe piacere, se mi chiami –. Non lo aveva chiamato. Poteva chiamarla lui, volendo. E non l’aveva chiamata. Però l’aveva incontrato poco dopo, all’alimentari, e gli aveva detto di suo figlio che stava per avere un altro bambino da un momento all’altro, giù a New York, e Jack era stato carino, ma non l’aveva più invitata a casa sua, e poi l’aveva visto un po’ più tardi (lui non aveva visto lei) sempre in quel negozio, a parlare con quella stupida vedova, Bertha Babcock, che, per quanto ne sapeva Olive, doveva essere repubblicana come Jack e forse lui preferiva quella stupida a lei. Chi può dirlo? Le aveva mandato una mail con tanti punti interrogativi come oggetto, senza una parola di testo. Era una mail, quella? A Olive proprio non sembrava.
– Accidenti a te, – disse mentre finiva l’involtino all’aragosta. Appallottolò la carta e la buttò sul sedile posteriore, dove si vedeva ancora la macchia del casino che aveva combinato quella scema.
– Ho fatto nascere un bambino, oggi, – aveva detto al figlio al telefono.
Silenzio.
– Hai sentito cosa ho detto? – chiese Olive. – Ho detto che ho fatto nascere un bambino, oggi.
– Dove? – Aveva la voce cauta.
– Sulla mia macchina, davanti a casa di Marlene Bonney. C’era una ragazza… – E gli raccontò la storia.
– Però! Complimenti, mamma –. Poi con tono ironico aggiunse: – Potresti venire qui a far nascere il tuo prossimo nipote. Ann partorisce in acqua.
– In acqua? – Olive non capiva di cosa stesse parlando.
Christopher disse qualcosa sottovoce a una persona che doveva essergli accanto.
– Ann è di nuovo incinta? Christopher, si può sapere perché non me l’hai detto?
– Non è ancora incinta. Ci stiamo provando. Ma lo sarà.
Olive disse: – Cosa vuoi dire, che partorisce in acqua? Tipo, in piscina?
– Sì, una specie. Una vasca per bambini. Tipo quella che avevamo in cortile. Solo che è più grande e naturalmente super igienica.
– E perché?
– Come perché? È più naturale. Il bambino scivola nell’acqua. Ci sarà l’ostetrica. È tutto sicuro. Più che sicuro, è come dovrebbero nascere i bambini.
– Ho capito, – disse Olive. Non aveva capito per niente. – E quando ce l’avrà, questo bambino?
– Appena è incinta facciamo i conti. Non lo stiamo dicendo a nessuno, neanche che ci proviamo, per via di come sono andate le cose l’altra volta. Ma a te l’ho detto. Ecco.
– Bene, allora, – disse Olive. – Ciao.
Christopher, ne era sicura, aveva fatto un verso sdegnato, prima di rispondere: – Ciao, mamma.
Tornata a casa, Olive fu contenta di scoprire che la piccola chiazza di maionese sulla giacca nuova rispondeva bene all’acqua calda e sapone, e l’appese in bagno perché si asciugasse in quel punto. Poi tornò a sedersi sulla poltrona che affacciava sulla baia. Il sole era basso, giusto qualche scintilla ormai, e si vedevano una o due nasse da aragoste; a quell’ora del giorno il sole si incendiava calando obliquo sull’acqua. Non riusciva a smettere di pensare alla stupidità di quella festa. Tutte donne. Perché poi dovevano essere tutte donne, a una festa per un nascituro? Gli uomini non c’entravano, con le faccende dei bambini? Olive pensò che a lei non piacevano, le donne.
Gli uomini sì.
Le erano sempre piaciuti. Avrebbe voluto avere cinque figli maschi. Anche adesso, avrebbe voluto averli avuti, perché Christopher era… Oh, Olive sentì calarle addosso il peso della tristezza autentica, come le succedeva, da quando Henry aveva avuto l’ictus, quattro anni prima, e da quando poi era morto, due anni fa, era quasi come se le si chiudesse proprio il respiro.
[…]
E d’un tratto a Olive venne in mente che non era stata felice neanche prima che Henry avesse l’ictus. Come mai le fosse così chiaro in quel momento, proprio non lo sapeva. La sensazione di quella infelicità l’assaliva di tanto in tanto, ma generalmente quando era sola.
A essere sinceri Olive non si spiegava come mai la vecchiaia avesse portato con sé una specie di durezza nei riguardi di suo marito. Ma a quanto pare non poteva farci niente, come se il muro di pietra che si era alzato tra di loro nel corso del lungo matrimonio – un muro che li separava ma che offriva anche crolli inattesi in punti riparati e coperti di muschio dove filtrava qualche raggio di sole nella risata di una improvvisa complicità –, come se quel muro fosse diventato altissimo e inespugnabile e nelle sue crepe, anziché crescere fiori, si infilassero spifferi di aria gelida. In altre parole, si era formata una barriera apparentemente insormontabile tra di loro. C’erano stati periodi in cui avrebbe potuto indicare a se stessa l’aggiunta ora di un masso, ora di un mucchio di altri sassi (l’adolescenza di Christopher, l’attrazione per quel Jim O’Casey che insegnava a scuola con lei secoli prima, l’atteggiamento ridicolo di Henry con quella ragazza Thibodeau, l’orrore di un crimine che lei e Henry avevano vissuto insieme quella volta che, sotto la minaccia di morte, erano state dette cose atroci; e poi c’era stato il divorzio di Christopher e la sua decisione di andarsene), ma comunque continuava a non spiegarsi perché dovessero arrivare alla vecchiaia con quel muro orrendo che li divideva. Ed era tutta colpa sua. Perché man mano che a lei si infeltriva il cuore, Henry diventava più appiccicoso, e quando lui la seguiva per casa qualche volta e l’abbracciava da dietro, il massimo che le riusciva di fare era non rabbrividire palesemente. Piantala!, aveva voglia di urlargli. (Ma perché? Che crimine stava commettendo, a parte chiederle di essere affettuosa?) […]
[da Olive, ancora lei di Elisabeth Strout, trad. Susanna Basso, Einaudi, 2020]
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