È una storia tenera e anche un po’ bislacca quella raccontata da Dörte Hansen nel suo secondo romanzo “Tornare a casa”, pubblicato da Fazi. Un romanzo scritto con maestria (brava la traduttrice Teresa Ciuffoletti nell’averne saputo mantenere tutta la vividezza) che in Germania ha spopolato fino ad essere stato promosso libro dell’anno da “Der Spiegel” e dai librai tedeschi. Il protagonista è Ingwer Feddersen, nato e cresciuto a Brinkebüll, un paesino nel nord della Frisia. Uno sperduto villaggio di montagna e di gente gretta: “Da quelle parti un essere umano non aveva tanta voce in capitolo. Poteva accostare sulla destra, scendere dall’auto, urlare contro il vento e inveire a squarciagola sotto la pioggia, era inutile.” In questa angusta realtà Ingwer Feddersen costituiva un’eccezione non da poco. Aveva studiato, preso la laurea in archeologia, era diventato professore e si era trasferito a Kiel. Cosa ancora più sorprendente, Ingwer era figlio di una ritardata mentale, Marret, rimasta incinta non si sa di chi a diciassette anni (“Inseguo le nuvole bianche e comincio a sognare. A volte invece arriva la sfortuna, ma quella era un’altra canzone: a diciassette anni si sogna, poi arriva un bambino e allora si diventa pazzi. O forse si era pazzi già da prima e il bambino era venuto dopo, nel caso di Marret l’ordine non era chiaro”). Ingwer era stato cresciuto dai nonni, gestori della locanda del paese e fin da piccolissimo messo in piedi su una cassa a spillare birra al bancone dell’osteria. Il giorno che aveva lasciato il paese era stato vissuto dagli abitanti come un tradimento. Ora il professor Feddersen ha quasi cinquant’anni, una vita accademica insoddisfacente e un'ambigua convivenza a tre. Decide di prendersi un anno sabbatico, tornare al suo paese, anche perché gli anziani genitori (ovvero i nonni) non sono messi troppo bene. Ed ecco il tema del ritorno alle origini – certo non nuovo – che l’autrice tratta con grande mestiere alternando i registri dell’ironia, del sentimento, della cruda realtà e del sogno; intrecciando destini individuali e collettivi. Tutto questo per dire che c’è sempre un momento della vita in cui per ritrovare sé stessi occorra tornare alle proprie radici. Per capire ciò che è stato solo destino e ciò che abbiamo scelto magari proprio per riscatto, ripicca, cesura verso quanto non è dipeso da noi. E così riscegliere consapevolmente il non-scelto, inscriverlo a pieno titolo – forse anche con orgoglio – nella nostra esistenza.
***
La prima estate senza cicogne fu un segno, e quando in autunno gli spinarelli dal ventre bianco presero a galleggiare nell’acquitrino, anche quello fu un segno. «È la fine del mondo», diceva Marret Feddersen e ne vedeva i segni dappertutto.
L’estate seguente i vecchi olmi si seccarono giù a Westerende, dove da cent’anni intrecciavano le loro fronde. Le foglie ingiallirono di colpo, i rami spogli, già nel mese di giugno. Per un altro anno rimasero lì come regnanti deposti. Poi venne Karl Martensen con i suoi uomini, e le motoseghe stridettero a lungo, finché i tronchi degli olmi furono caricati sui camion. Legno duro, che andava fatto essiccare per un’eternità prima di poterlo piallare o fresare. Venne Marret, staccò un pezzo di corteccia grigia e una manciata di samare, poi rifece il giro del paese, andando di porta in porta, com’era solita fare ogni volta che vedeva un segno: «È la fine del mondo».
Il mondo finì quando investirono il figlio minore degli Hamke sulla strada nuova, la striscia bianca nel mezzo si era appena asciugata. E quando i cacciatori vagarono tutto il giorno per i campi brulli nella battuta di caccia di novembre e non trovarono neanche una lepre a cui sparare, il mondo finì di nuovo. E poi ancora qualche estate più tardi, quando il figlio maggiore di Paule Bahnsen travolse un caprioletto con una Dominator 76, la più grande mietitrebbia mai vista in paese. Si era nascosto nel grano alto, perché i cuccioli di capriolo non fuggono dai nemici. Si fanno piccoli piccoli e restano acquattati fino a quando il pericolo è passato. O finché non vengono travolti dalla testata di una Dominator 76, larga 3 metri e 60 e nuova di zecca. Ossa, sangue e pelliccia nella barra falciante. Un giovane contadino che non vuole trebbiare mai più.
La si sentiva da lontano Marret Feddersen, quando arrivava di corsa con i suoi zoccoli bianchi. Portava sempre ai piedi quei vecchi arnesi. Sandali di legno consumati, pure con la neve e col ghiaccio. Perché comprare altre scarpe?
La gente sospirava quando sentiva quello scalpiccio in strada. Rieccola la fine del mondo. C’era da mettere a bagno i fagioli, da smontare il monoblocco del trattore, uno stava al nastro a scegliere le patate novelle o appendeva le tende fresche di bucato, e proprio in quell’istante arrivava Marret scalpicciando. A volte non era il momento.
Di bussare non ce n’era bisogno, lei ovviamente passava dalla porta sul retro, perché a quella d’ingresso si presentavano solo gli sconosciuti e i venditori ambulanti. Se in casa non c’era nessuno, Marret si sedeva al tavolo della cucina e canticchiando disegnava qualche fiore o qualche animale su un blocco di carta o sulle liste della spesa, con la penna scarabocchiava pecore, maiali e mucche sul retro dell’«Informatore agricolo», tralci di rose ai margini del quotidiano. A volte beveva un bicchiere d’acqua o si prendeva una mela. Se a quel punto non era arrivato nessuno, ritentava nella cucina successiva. Andava anche nelle stalle, nelle officine, spuntava all’improvviso con i suoi zoccoli davanti al banco del falegname, all’incudine, al forno nel panificio. Una volta fece quasi prendere un infarto a Kalli Jensen: il compressore della mungitrice era talmente rumoroso che lui non l’aveva sentita arrivare e per poco non finì a gambe all’aria quando Marret gli diede un colpetto sulla spalla. Kalli trasalì, si appoggiò ansimante alla parete della stalla e non volle più sentire una parola su qualsivoglia fine del mondo.
I pesci morti, gli alberi, i bambini, i caprioli, l’estate senza cicogne e i campi senza lepri erano tutti presagi della grande catastrofe che Marret aveva descritto, nero su bianco, sul suo giornale. «IL TEMPO STA PER SCADERE!». Un vecchio opuscolo formato A5, già rattoppato in vari punti con del nastro adesivo. Marret l’aveva trovato su un tavolo alla locanda Feddersen, dove ogni sera puliva i pavimenti, qualcuno doveva averlo dimenticato. A giudicare dall’immagine di copertina sembrava che un artista di strada si fosse cimentato con l’apocalisse: esplosioni di case davanti a un cielo fiammeggiante e persone con le bocche spalancate che correvano per salvarsi la vita. La fine del mondo dipinta ad aerografo. «SVEGLIATEVI!». La verità era scritta in quell’opuscolo, Marret lo portava sempre con sé quando faceva il suo giro del paese.
Era puntuale e affidabile come la posta o il corriere del circolo di lettura, che ogni giovedì andava di casa in casa a sostituire le riviste prese in prestito.
Ci si era abituati alla “fine del mondo” di Marret come ai bambini che ogni anno a San Silvestro bussavano alla porta di casa travestiti per il Rummelpott, picchiando sui tamburi o sulle pentole e cantando a squarciagola quella loro canzone sulla nave che veniva dall’Olanda. C’è una nave che vien dall’Olanda, se ne vien con un vento sbilenco. Non la capiva nessuno quella canzone. Perché la nave venisse dall’Olanda e cosa fosse un vento sbilenco restavano un mistero. Ma non aveva importanza. Ascoltavi, annuivi, ridevi, regalavi dolcetti ai cantanti cercando di riconoscere i figli dei vicini sotto alle parrucche e alle maschere. Ricevevi l’augurio di un felice anno nuovo e li lasciavi proseguire. Le storie apocalittiche di Marret erano come il vento dall’Olanda: sbilenche e strambe, niente di più. Annuivi, ascoltavi e la lasciavi proseguire.
Persino il pastore Ahlers tollerava che l’oracolo dagli zoccoli bianchi facesse di tanto in tanto il giro della comunità. Il fatto che Marret si ostinasse a suffragare le sue profezie con un dépliant dei Testimoni di Geova non lo rendeva particolarmente felice ma, dopo tanti anni di servizio nella provincia della Frisia settentrionale, Ahlers era abituato a cose ben peggiori. Non stava a preoccuparsi di simili sciocchezze, tanto la gente non credeva a nulla. Lui ci aveva provato, Dio solo lo sa, a risollevare le anime e ad affrancarle dalle valli oscure, ma il lavoro del pastore era difficile lassù. Il suo gregge sembrava refrattario a ogni credenza. Pelo resistente al vento e alle intemperie, impermeabile a qualsiasi senso di devozione. Tutto ciò che aveva a che fare col divino gli scivolava addosso come acqua sulle piume di un’oca. Non credevano a una parola di quello che lui diceva. Se è per questo non credevano nemmeno alla fine del mondo di Marret. Pazzi e pastori, che chiacchierassero pure.
Solo Carsten Leidig, che abitava nel vecchio mulino, temeva la fine del mondo di Marret. Gli bastava vederla da lontano per mettersi a imprecare agitando il suo coltello da rape, come se Marret avesse qualcosa di contagioso. O potesse far perdere qualche rotella anche a lui.
Tutto sommato, lei era più normale del forestiero calvo che ogni anno, a marzo o ad aprile, arrivava zoppicando per la strada del villaggio con addosso una gonna corta celeste. Aveva una gamba sola, l’altra era di legno. Affilava i coltelli e le forbici, da lui si potevano comprare spazzole, stringhe e lucido da scarpe, e quando veniva si diceva ai bambini di non starlo a fissare. Ma distogliere lo sguardo era proprio impossibile se un uomo in gonna e collant velati bianchi bussava alle porte e faceva di tutto per farsi vedere.
L’arrotino calvo non entrava in cucina, doveva fermarsi alla porta d’ingresso. Non per via dei collant velati e della gonna celeste, ma perché era un forestiero. Lo salutavi con un cenno del capo e compravi una spazzola per unghie senza invitarlo a entrare.
Marret con gli zoccoli e l’opuscolo «SVEGLIATEVI!» tutto sbrindellato apparteneva alla gente del villaggio, alla cerchia dei vicini e conoscenti, dei fattorini e fornitori che entravano nelle case dalle porte sul retro e si potevano sedere sulle panche in cucina. Per loro si mettevano in tavola le sigarette, si andava a prendere la grappa o la birra, e quando veniva Marret le si offriva un po’ di succo di frutta e del cioccolato. A volte, dopo i suoi discorsi sui segni e sulla verità, Marret cantava pure una canzone. Si alzava in piedi, spalancava le braccia e cantava come Connie Francis o Heidi Brühl, perché quelle ballate pop le piacevano ancora di più delle profezie sulla fine del mondo.
Nelle canzoni di Marret tutti volevano avere diciassette anni. A diciassette anni si sogna, poi arriva la fortuna, e allora tutto si aggiusta. Inseguo le nuvole bianche e comincio a sognare.
A volte invece arrivava la sfortuna, ma quella era un’altra canzone: a diciassette anni si sogna, poi arriva un bambino, e allora si diventa pazzi. O forse si era pazzi già da prima e il bambino era venuto dopo, nel caso di Marret l’ordine non era chiaro.
[da Tornare a casa di Dörte Hansen, trad. di Teresa Ciuffoletti, Fazi, 2020]
Torna Indietro