Dimmi di te. Per maturare non basta crescere

Luigi Oliveto

13/11/2024

L’ultimo romanzo di Chiara Gamberale, “Dimmi di te” (Einaudi), pone molte e ardue domande. Non è infatti facile stabilire se la nostra vita corrisponda a come l’avevamo pensata, quanto possiamo dirci ‘compiuti’, non tanto rispetto a certi parametri fasulli imposti dall’esterno, ma in rapporto a sé stessi, a ciò che fa sentire bene con la propria persona, con il nostro essere al mondo. La protagonista del romanzo, Chiara, è giunta a una fase della vita (oltre i quarant’anni) in cui questi interrogativi privi di risposte sono diventati opprimenti, tanto da avere trasformato la sua esistenza in una “palude”. Madre single di una bambina (che nel romanzo viene chiamata semplicemente Bambina), cede ad una delle più diffuse consuetudini familiari: lascia la mansarda del condominio dietro la stazione (perfetto milieu per una adolescenza protrattasi oltre il dovuto) e va ad abitare vicino ai genitori, “impeccabili nonni”, così da avere un aiuto per la gestione della bimba e più tempo per sé. Ma, a cominciare dall’ambiente lindo e tranquillo di quel quartiere (il Quartiere Triste), dalle famiglie così perbene e ‘normali’ che vi risiedono, Chiara si sente quanto mai “impantanata”. Qualcosa accade, però, quando incontra casualmente un amico dei tempi del liceo. L’incontro suscita un inevitabile rimando al passato, ma soprattutto l’esigenza di ripensare quanto il presente possa essersi disallineato dalle aspettative racchiuse in quel passato, quali scelte (e non-scelte) hanno tradito i sogni. L’amico ritrovato diviene così un primo termine di paragone per iniziare a comprendere come si divenga adulti (che è cosa diversa dal crescere), quali compromessi siano forse inevitabili. Questa scoperta dell’altro per testare la propria maturità, induce Chiara a ricontattare diversi suoi coetanei – figure che negli anni del liceo avevano esercitato su di lei forte ascendente, fascino, ammirazione – per verificare quanto il loro presente corrisponda a ciò che erano stati, e, comunque, come e se riescano a vivere in pace con loro stessi. Conduce questa ricerca con metodo, fissa appuntamenti anche percorrendo chilometri, registra scrupolosamente quelle chiacchierate. Pone persino delle condizioni: sarà lei a fare domande – “Dimmi di te”, appunto – e nulla di lei può essere chiesto. Non per una forma di supponenza, ma per essere totalmente in ascolto, per capirli appieno senza introdurre nei loro confronti nessun elemento di giudizio. Anzi, per giungere meglio a un giudizio su di sé, ancorché impietoso, ogni qualvolta si rende consapevole di verità da cui non può più sfuggire. Un’indagine necessaria per maturare senza marcire, poiché all’inazione della palude sono pur sempre preferibili le acque aperte di un mare mosso.

***

Alla fine avevo ceduto e Bambina e io avevamo cambiato casa.
Ci eravamo trasferite nel Quartiere Triste, dove, da quando erano andati in pensione, si erano trasferiti i miei genitori.
Un posto tranquillo, Chiara.
Pieno di verde.
Non sembra neanche di stare a Roma.
C’è un silenzio.
Altro che il tuo, di quartiere.
Un quartiere per studenti fuori sede.
Senza un asilo decente.
Una palestra.
Vuoi mettere? Qui per i bambini c’è tutto.
La vita diventerà subito facile.
E poi avrai noi a pochi passi e potremo darti una mano.
Così, a più di quarant’anni, dopo averne trascorsi almeno trenta a contestare l’impalcatura della famiglia messa su da mia madre e mio padre, avevo bisogno proprio dell’aiuto che loro, solo loro, impeccabili nonni, adesso mi potevano dare.
L’avessi messa su io, una famiglia: no, non ne ero stata capace.
Perché a furia di cercare l’amore, di confidare in un allineamento fra i miei pensieri e i sentimenti e le emozioni, non mi ero preoccupata di imparare che cos’è una coppia, com’è che funziona.
Avevo stremato la mia adolescenza oltre ogni limite, ancora mangiavo poco o niente durante il giorno e poi la notte aprivo il freezer e facevo fuori una vaschetta di gelato, nella mansarda di quel quartiere per studenti fuori sede dove abitavo, ogni sera sul divano poteva addormentarsi un mio amico, un’amica, persone come me che dopo le sette, finito di lavorare, dovevano improvvisare il seguito, non c’era nessuno con cui avessero un appuntamento fisso alla stessa tavola.
Ero riuscita perfino ad avere una figlia in circostanze adolescenziali.
Forse per questo, perché per motivi diversi lo smarrimento era lo stesso, lei e io ci eravamo subito riconosciute, subito capite. Mentre tutto quello che da lì in poi ci avrebbe dovuto girare attorno e quello attorno a cui avremmo dovuto girare noi, non lo riconoscevo, non lo capivo, non sapevo come affrontarlo.
Sei ancora innamorata o no?
Lui? È innamorato?
Un conto è l’amore, un altro è la dipendenza, eh.
Sei sicura che con la ex abbia risolto?
E tu? Con il tuo, di passato?
Sai, lui è identico al tizio con cui sono uscita io l’altra sera e che…
Secondo me invece somiglia più alla tizia che avevo incontrato sul cammino di Santiago, la tedesca, ve la ricordate?
Nella mansarda, dal giorno in cui avevo scoperto di essere incinta, non cercavamo altro che una soluzione al rebus – che era sempre stato difficile, ma adesso si faceva impossibile – del rapporto fra me e il padre di Bambina, che viveva e lavorava in un’altra città. Parlavamo, parlavamo, parlavamo parlavamo. Sapevamo ammazzare il tempo solo così, tutti insieme, oppure ognuno per conto suo, perché allo stare in due (con un’altra persona: quella, e basta) forse chiedevamo troppo, forse eravamo disposti a sacrificare troppo poco – la questione rimaneva aperta. Naturalmente nessuno di noi aveva mai immaginato di avere un bambino, perché eravamo noi i bambini, bambini marci – persone che non erano state in grado di maturare. Tutti infatti avevano da subito amato Bambina come fosse un peluche, la mascotte della nostra mansarda. Ma ero io, solo io, che la notte mi svegliavo se lei si svegliava, ero io che restavo sveglia anche mentre dormivo, che la stringevo a me incandescente quando aveva la febbre alta, e non memorizzavo che i bambini piccolissimi fanno così: il giorno dopo passa tutto, era a me che ogni volta quella febbre arrivava alla cima dei nervi, ero io che mi ero prosciugata per allattarla almeno i primi tre mesi con il latte che purtroppo avevo a gocce, io che scaldavo – ma senza esagerare – quello in polvere, per le aggiunte, io che avevo sempre avuto il freezer gonfio e il frigorifero vuoto, occupato solo dalla sua luce, e adesso, mentre Bambina compiva sei sette nove mesi un anno, organizzavo lo scompartimento degli omogeneizzati di carne, di pesce, delle verdure da bollire per il brodo, della crema al mais e alla tapioca – che odore orribile aveva, la tapioca –, ero io che la incoraggiavo a mettere un piedino davanti all’altro, brava, ora aggrappati qui, amore, io che la portavo a fare il primo vaccino, il richiamo, che cercavo il pediatra giusto, il nido giusto, che salivo e scendevo i sette piani a piedi del nostro palazzo senza ascensore con lei in braccio, dopo avere legato il passeggino nell’androne con una catena per le bici, perché se mi dimenticavo di farlo rischiavo di non trovarlo più, come mi era successo due volte nel primo mese: ma, appunto, era un quartiere fatto così, quello. Un quartiere alle spalle della stazione dove tutto può succedere, le persone capitano, se ne vanno, è difficile che qualcuno resti, che si fermi per più di un paio di giorni, e infatti è vero che al di là di un asilo improvvisato nel cortile di cemento armato di un convento, non ci sono scuole per l’infanzia che si possono raggiungere senza prendere la macchina, palestre, non ci sono veterinari, toelettature per cani, niente che possa andare incontro a un’abitudine, i sampietrini dissestati promettono solo avventure e casualità, non ci sono nemmeno i marciapiedi.
Che invece nel Quartiere Triste costeggiano, larghi e placidi, le strade di alberi curati da dove partono viuzze su cui si affacciano i cancelli di graziose villette degli anni Venti, bianche o gialle, e di palazzine liberty basse, con i balconi a cielo aperto, il glicine che si arrampica tutt’attorno ai portoni, le station-wagon parcheggiate.
Eddài, Chiara.
Venite qui.
Fatti aiutare.
Da quanto sei stanca non riesci più a lavorare.
Era vero. Avevo pubblicato il mio primo romanzo a vent’anni, ma ne avevo sette quando avevo scritto Clara e Riki e poi Clara e Riki crescono e poi I figli di Clara e Riki… Non sapevo fare altro nella vita che quello. Leggere, inventare storie, scriverle. I miei personaggi somigliavano ai miei amici della mansarda, ancora prima che li conoscessi: raccontavo chi fa confusione, inciampa, si perde proprio mentre imbocca la via di casa. Chi è destinato a diventare, se ancora non lo è, un bambino marcio. Amavo profondamente il mio lavoro, mi imbarazzava anche chiamarlo lavoro: appena mi avvicinavo a un uomo, a una montagna, allo sportello di un bancomat ero assalita da un dubbio, ma scrivere era la mia certezza, tutte le mie costanze, il mio unico rimedio all’esistenza.
Finché non era arrivata Bambina.

[da Dimmi di te di Chiara Gamberale, Einaudi, 2024]

 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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