Delphine De Vigan, se la vecchiaia è imparare a perdere

Luigi Oliveto

16/04/2020

Dicono che l’emergenza Covid-19 renderà tutti migliori, che sortiremo dal tunnel con il pallore in volto (per il sole negatoci) ed anime ancor più candide perché passate dal lavacro dei buoni sentimenti, dei pensieri che avrebbero ripristinato l’ordine giusto dei valori. Non credeteci. Basterà poco per tornare ad essere le persone di sempre: mediocri, vacue, persino spregevoli (spregevoli asintomatiche). Se comunque volessimo approfittare di questi giorni claustrali per un ultimo tentativo di rieducazione, i libri (sarà ancora retorica?) possono aiutare. Del resto – datecene atto – sul tema andiamo sgolandoci assai prima di essere stati sottoposti a tampone covidiano. Bene. Può essere ascritto alla lista dei libri riabilitanti anche l’ultimo romanzo di Delphine De Vigan. Già il titolo è indicativo: “Le gratitudini”. De Vigan è scrittrice attenta alle questioni sociali o, per meglio dire, alle situazioni umane che costituiscono problema sociale. Nei suoi precedenti romanzi ha raccontato l’anoressia, le fragilità psichiche e affettive, il mobbing sul lavoro, gli abusi sui minori. Pagine spesso cupe. Non è il caso di quest’ultimo libro in cui il tema è la vecchiaia. Una storia che non intristisce, ma rasserena, poiché nessuno dei tre personaggi sfugge all’impatto del problema (l’invecchiamento, appunto) ma lo assume dentro sé con lucidità ed empatia. Dice uno di loro: “Invecchiare è imparare a perdere”. La vicenda narra di Michka, anziana single, che dopo una vita passata a correggere bozze – a far sì che le parole fossero esatte – viene colpita da parafasia, un disturbo del linguaggio. Lettere e suoni si confondono, non corrispondono a quello che si vorrebbe dire; con esiti che, talvolta, farebbero ridere se non ci fosse lo sconcerto di come tutto ciò generi disorientamento, difficoltà a sapersi gestire anche nelle cose più routinarie. Insomma, non può continuare a vivere da sola nel suo accogliente appartamento parigino; diventando, peraltro, un assillo per Marie, la vicina di casa che lei ha cresciuto come una figlia (la vera madre era stata pressoché assente) e che oggi la ricambia di un amore filiale. Michka, così, decide di andare a stare in una residenza per anziani. Nell’anonima stanzetta del pensionario c’è ormai poco da attendere se non le visite di due persone che per lei sono consolatorie: la quasi-figlia Marie e il giovane ortofonista Jérôme, colui che ha teorizzato come la vecchiaia sia scuola di privazione: perdita di forze, memoria, affetti, parole. Michka non si sottrae a questa scuola, vi partecipa consapevolmente, addirittura con ironia. In ragione di tale consapevolezza coinvolge Marie e Jérôme in un suo ultimo desiderio: ringraziare la famiglia che in tempo di guerra l’accolse salvandole la vita. Manifestare loro un “gratis”, dice Michka impasticciando ancora una volta pensieri giusti con parole imprecise. Vuole compiere un gesto di gratitudine. E la gratitudine è ri-conoscenza, dell’altro e di sé stessi. Così che i tre personaggi, in un gioco di rimandi, sperimentano ciò che nella gratitudine si offre e si riceve. E’ stato scritto che il libro della De Vigan non può proprio dirsi un imperdibile esempio di letteratura (è vero) ma solo edificante storiella di buoni sentimenti (e questo è decisamente falso).
 
***
 
È successo di colpo. Dall’oggi al domani.
Non che fossero mancati i segni premonitori. A volte Michka si fermava in mezzo al salotto, disorientata, come se non sapesse più da dove cominciare, come se il rituale, tanto spesso ripetuto, all’improvviso le sfuggisse. Altre volte si fermava a metà di una frase, inciampava, letteralmente, in qualcosa d’invisibile. Cercava una parola e incappava in un’altra. O non trovava niente, solo il vuoto, una trappola da aggirare. Ma intanto viveva da sola, a casa sua. Autosufficiente. E continuava a leggere, a guardare la televisione, a ricevere qualche visita.
E poi c’è stato quel giorno d’autunno, che nulla aveva preannunciato.
Prima le cose funzionavano. Dopo non funzionavano più.
La immagino nel suo appartamento con i soffitti bassi, è sola, seduta in poltrona. Alle sue spalle le tende sono chiuse, ma dallo spiraglio s’intravede la luce pomeridiana. Le pareti sono un po’ ingiallite. I mobili, i quadri, i ninnoli sulle mensole, intorno a lei tutto sembra risalire a un tempo lontano.
Si chiama Michka. È una vecchia signora con un’aria da ragazza. O una ragazza invecchiata per sbaglio, vittima di un brutto sortilegio. Le mani lunghe e nodose stringono i braccioli come se la poltrona rischiasse di ribaltarsi.
All’improvviso una serie di bip trafigge il silenzio. Michka sembra sorpresa, si guarda intorno, osserva il braccialetto che ha al polso come se i suoni potessero venire da quell’oggetto brutto e strano che alla fine si è lasciata convincere a portare.
Poi nella stanza risuona la voce dell’operatrice della teleassistenza.
– Buongiorno signora Seld, sono Muriel della teleassistenza, ha premuto l’allarme?
– Sì…
– È caduta?
– No, no.
– Non si sente bene?
– Non proprio.
– Può spiegarmi un pochino?
– Ho paura.
– Può dirmi dove si trova, signora Seld?
– In salotto.
– È ferita?
– No, ma… Sto perdendo.
– Ha perso qualcosa?
Michka si aggrappa più forte, ha la sensazione che la poltrona beccheggi sotto il suo peso, o forse a scivolare via è il pavimento. Non risponde.
– È seduta?
– Sì, sulla poltrona. Ma non riesco più a muovermi.
– Non riesce più ad alzarsi?
– No.
– Da quanto tempo è seduta in poltrona, signora Seld?
– Non so, da stamattina, credo. Dopo colazione mi sono seduta come al solido, a fare le parole crociate. Ma non ho trovato niente. E dopo volevo… volevo… Non sono riuscita ad alzarmi… Perdo tutto, è per questo.
– Che cosa ha perso, signora Seld?
– Non si vede. Ma io lo sento. Mi scarpa… Scappa.
– Può muovere le gambe, signora Seld?
– No, no, no, non ci riesco più. Non c’è più niente da fare. Ho paura.
– Davvero non riesce ad alzarsi?
– No.
– Ha mangiato a pranzo?
– Non proprio.
– Quindi è seduta in poltrona da stamattina e non si è mossa?
– Ecco. Sì.
– Chiamo una delle persone della lista, va bene?
– Sì.
Sono sicura che Michka ha sentito le dita dell’operatrice volare sulla tastiera.
– Ho il nome della signorina Marie Chapier. La chiamo?
– Non so…
– È sua figlia?
– No.
– Vuole che la chiami?
– Sì, grazie. Le dica che non volevo… darle proclami, ma è perché sto perdendo qualcosa, qualcosa d’importante.
Una musica da supermercato ha sostituito la voce dell’operatrice. Michka non si muove, guarda dritto davanti a sé, in quella posizione di attesa concentrata che conosco bene. Dopo qualche secondo si risente la voce.
– Signora Seld, è ancora lì?
– Sì.
– Marie viene subito. Ha detto che arriverà fra venti, venticinque minuti. Avverte il suo medico.
– Fa pena.
L’ha detto proprio con il tono che si usa per dire va bene.
– Cosa fa pena?
– Sì, fa pena.
– Io sono sempre qui, signora Seld. Adesso continuo il mio lavoro, ma se non si sente bene prema di nuovo il pulsante del braccialetto e sarò in linea, va bene?
– Sì, fa pena. Grazie.
Michka resta seduta, con le mani appoggiate sui braccioli. Cerca di respirare con calma.
Chiude gli occhi.
Dopo qualche istante sente una voce di bambina.
Dormo da te? Lasci la luce accesa? Rimani qui? Puoi lasciare la porta aperta? Stai vicino a me?
Sorride. La voce della bambina è un ricordo al tempo stesso dolce e doloroso.
Possiamo fare colazione insieme? Hai paura, tu? Sai dov’è la mia scuola? Non spegnere, eh? Mi accompagni se la mamma non può?
Ho suonato una volta sola, senza insistere, e ho subito infilato la chiave nella serratura.
Sono entrata nella stanza e l’ho trovata lì, abbarbicata alla poltrona come se ora la corrente la trascinasse via.
Mi sono avvicinata e le ho dato un bacio. Ho percepito il profumo dolce della lacca per capelli, che ancora oggi, per me, mantiene intatto il suo potere di reminiscenza.
– Allora, Michka, che succede?
– Non so. Ho paura.
– Ti aiuto ad alzarti, va bene?
– No no no.
– Ma Michka, sono venuta tre giorni fa, camminavi senza problemi, con il bastone. Sono sicura che riesci ad alzarti.
Le ho passato un braccio intorno per aiutarla. Si è appoggiata ai braccioli per prendere lo slancio. Si è ritrovata sulle sue gambe, stupita lei per prima, barcollava un po’ ma riusciva a reggersi in piedi.
– Visto?
– Ti ho raccontato quando sono caduta in salotto?
– Sí, Michka, me l’hai raccontato.
– A bestia in giù!
Le ho dato il bastone e mi sono spostata dall’altro lato perché potesse prendermi a braccetto.
– Su, andiamo!
– Attenta, eh…
– Starai morendo di fame…
Ci siamo dirette verso la cucina. Si aggrappava a me e avanzava a passettini. A poco a poco ho avvertito che si sentiva più sicura.
– Non va così peggio…
Ma da quel giorno Michka non è più stata in grado di vivere da sola.
 
[da Le gratitudini di Delphine De Vigan, trad. Margherita Botto, Einaudi, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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