De Giovanni e l’equazione per misurare il cuore

Luigi Oliveto

10/03/2022

Nell’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni, “L’equazione del cuore” (Mondadori), stavolta non ci sono commissari di polizia a investigare, perché oggetto di indagine è solo il cuore con i suoi tormenti, è la vita che, alla prova del dolore, si difende per quanto può. Come tenta di fare il protagonista Massimo De Gaudio, professore di matematica in pensione, che dopo la morte della moglie si è ritirato su un’isola del golfo di Napoli. Casetta defilata a pianoterra, piccolo giardino, ore fruttuosamente impegnate a pescare, qualche libro, musica alla radio, i telegiornali sul vecchio televisore, pasti essenziali solo se sollecitati dalla fame, telefonate di routine alla figlia Cristina che vive al Nord con il marito e il figlioletto Checco. Un’esistenza metodica per dare metodo ai pensieri, argine ai sentimenti, una volta stabilito che “pure la tristezza è uno sforzo inutile”. A spezzare questa studiata quiete subentra un fatto gravissimo. La figlia e il genero muoiono in un incidente stradale e il nipotino che viaggiava con loro è in coma. Per Massimo la notizia risulta essere più ‘disturbante’ che drammatica: “Si chiese per quale motivo non provasse dolore. Si chiese perché non fosse straziato, distrutto. Si chiese perché l'emozione più chiara che sentiva dentro fosse il fastidio di dover andare dove stava andando, di separarsi dalla sua quotidianità blindata”. Partecipa doverosamente ai funerali con l’idea di un veloce ritorno alla solitudine della propria casa. I medici, però, chiedono che resti vicino al letto del nipote. Per la sorte del ragazzino freme l’intera città. Non solo mossa da compassione, ma perché sarà lui l’erede di un’attività imprenditoriale che dà lavoro a molti. Non di meno, e per gli stessi motivi, gli occhi sono puntati sul nonno, unico parente in vita e dunque tutore del minorenne. Quando Massimo si chiede di cosa parlare al nipotino, non può che decidere per la matematica, la scienza capace di far comprendere logicamente la vita, di stabilire “le grandezze nel cielo e nel mare e nei gabbiani e perfino nelle orate”. Ecco allora il professore De Gaudio a tormentarsi con una equazione dalle molte incognite. Risolverla vorrà dire individuare l’insieme di tutte le sue soluzioni. Ma quanto ci sarà da arrovellarsi, quanto grande dovrà farsi il dolore? Lui sa bene che a questo servono le equazioni: a risolvere i problemi che riguardano giustappunto le grandezze, anche quelle del cuore.
 
***
 
Massimo De Gaudio preferiva l’inverno.
Non ci sarebbe stato niente di strano, ma il professore, come gli abitanti di Solchiaro lo chiamavano quando, abbassando la voce, parlavano di lui, aveva scelto di vivere in un’isola e in quell’isola ci stava di gran lunga meglio nei mesi freddi, quando la tramontana teneva lontano i chiassosi bagnanti, quando i rifiuti non traboccavano dai cassonetti, quando il greve profumo di pesce a buon mercato cotto all’aperto non appestava l’aria e quando il sonno non era compromesso da un’incomprensibile musica sparata ad altissimo volume.
Solchiaro stessa, d’altronde, era un’isola nell’isola; e di per sé forniva una precisa indicazione sullo spirito e sull’atteggiamento di chi sceglieva di viverci, non essendoci nato e nemmeno facendo parte di una generazione successiva a qualche ottocentesca migrazione. Un luogo appartato, una lingua di terra che si addentrava nell’acqua grigia. Niente eventi, niente attrazioni, niente di niente. Poche case, un emporio e una cappella chiusa, dedicata alla Madonna degli Agonizzanti ma per scaramanzia detta semplicemente ’A Marunnella. Essere forestiero, in un posto così, equivaleva a provenire da un altro pianeta.
Massimo abitava in una casa bassa, a un solo piano, con un cancelletto di ferro e un piccolo giardino con qualche albero da frutto. Giardino e alberi giravano attorno alla costruzione, isolandola ulteriormente. Non che ce ne fosse particolare bisogno: c’erano altre abitazioni ma molto distanti, come a sottolineare la disposizione all’isolamento di chi sceglieva di vivere lì.
Raramente si recava nella parte più abitata dell’isola, anche quando, come in quel piovoso novembre, restavano i pochi che non prendevano il traghetto per andare a lavorare in terraferma. Gli bastava l’emporio, non aveva grandi esigenze. Un paio di volte l’anno andava in libreria e faceva un po’ di provvista, il resto del tempo ascoltava musica alla radio. Al vecchio televisore del salotto lasciava il compito di trasmettere il telegiornale della sera.
Anche d’estate cercava di mantenere una vita estremamente abitudinaria, pure nei giorni a cavallo di Ferragosto in cui la figlia andava a fargli visita con il nipotino. D’altra parte Cristina approfittava di quel tempo lontana dalla sua vita al Nord e dal marito, che si limitava ad accompagnarla e tornare a riprenderla, per rivedere vecchie amicizie e per riposarsi al sole, e Checco se ne stava tranquillo a osservare quello che faceva il nonno senza disturbare mai. Per Massimo, tutto sommato, quel dazio ai legami di sangue era un pagamento accettabile. Sempre se non si eccedevano i dieci giorni.
Adesso però dell’estate non c’era più nemmeno l’ombra. Il vento soffiava incessante spogliando alberi e portando in giro malinconici fogli di vecchi giornali. I gabbiani si spostavano inquieti, lanciando grida che a volte sembravano umane. Il mare, a distanza, continuava a infrangersi rumorosamente contro le rocce.
Massimo stava accovacciato nei pressi della porta, per impilare dei vasi di cotto, e non si accorse del giovane al cancello, che, per farsi notare, si esibì in alcuni educati colpi di tosse. Niente da fare: il rumore della gentilezza se lo portava via il vento. Si risolse perciò a chiamare:
«Professore? Professore? Qui, al cancello. Buongiorno.»
L’uomo alzò la testa, come se avesse difficoltà a uscire dai propri pensieri. Sempre accovacciato e con le mani attorno a un vaso provò a mettere a fuoco la figura del giovane. Non lo riconobbe.
«Sì? Che vuole? Non ho bisogno di niente.»
L’altro batté i piedi per il freddo, la testa incassata nel bavero del cappotto che gli sventolava sulle cosce. I capelli biondi e sottili si muovevano come dotati di vita propria.
«Lo so, lo so, professore. Non sono qui per venderle niente, sono venuto a trovarla. Lombardi, quinta B, ricorda? Maturità del duemilasei. Lombardi. Mi chiamavano Ciccio.»
Lentamente, Massimo si alzò in piedi restando a fissare il giovane da dove si trovava. Non sembrava aver intenzione di muoversi verso il cancello.
«Duemilasei, dici. Otto anni fa, quindi.»
Il giovane confermò, lanciando un’occhiata fugace attorno. Sembrava sempre più a disagio.
«Sì, esattamente, professore. Otto e qualche mese. Sono venuto a farle visita, sempre se non è di troppo disturbo. Se ha da fare, la saluto da qui.»
Il professore parve finalmente prendere una decisione e si avviò a passo lento in direzione del cancello. Lo aprì e si voltò verso la porta di casa, lasciando la mano di Lombardi a mezz’aria in attesa di una stretta che non sarebbe arrivata.
All’interno c’era appena un po’ meno freddo che all’esterno, ma almeno non c’era vento. Il giovane aveva seguito il professore senza preoccuparsi di quello che l’altro avrebbe fatto. Da parte sua Lombardi ex Ciccio, maturità duemilasei, ritenne di tenersi il cappotto addosso per evitare il congelamento e restò all’ingresso in attesa di disposizioni.
Dopo un minuto Massimo si affacciò alla porta della cucina:
«Se vuoi il caffè te lo devi venire a prendere, guaglio’. Io fino a là non te lo porto.»
Il volto di Lombardi fu attraversato da un mezzo sorriso, quello che in genere accompagna la riflessione sulle cose che non cambiano mai.
In cucina il professore restò girato di spalle, in attesa che la macchinetta del caffè cominciasse a borbottare. La schiena disse:
«E fammi capire, Lombardi maturità duemilasei, perché dovrei ricordarmi di te?»
Il giovane tossicchiò di nuovo:
«Ero al terzo banco, professore, la fila verso la finestra, non quella della porta.»
La schiena replicò:
«Ogni classe ha un terzo banco, Lombardi. Perché mi dovrei ricordare di te?»
L’altro si passò una mano nei capelli, e si chiese perché gli fosse sembrata una buona idea andare a salutare il professore.
«Be’, ero abbastanza bravo in matematica, professore. La seguivo molto. Ebbi perfino un sette, nel secondo quadrimestre, e lei, come dire...»
«Ero abbastanza stretto coi voti, certo. Ma i sette non erano poi così rari. Perché mi dovrei ricordare di te?»
Prese la macchinetta e versò il caffè in due tazzine che appartenevano a servizi diversi.
Lombardi sospirò, sconfitto:
«Ha ragione, professore. Lasci stare. L’importante è che mi ricordi io di lei, è stato un piacere rivederla...»
[…]
È quasi ora di pranzo.»
Il professore l’interruppe:
«Tranquillo, sono solo. Qui non c’è nessuno, sono vedovo da dodici anni e mia figlia vive al Nord. Tra i vantaggi della solitudine c’è anche quello di mangiare soltanto quando si ha fame.»
Lombardi si sentì leggermente rincuorato.
«Ero grasso, ricorda bene. E questo mi escludeva un po’ da tutto, lo sa che se non fai sport le amicizie si riducono, le ragazze figuriamoci. Non ho grandi talenti, ma ricorda bene anche questo, professore: io sono testardo. E a quel sette, che per inciso fu l’unico che lei diede in tre anni di liceo, mi sono aggrappato.»
Massimo aggrottò la fronte:
«Aggrappato?»
«Sì, proprio così: aggrappato. Era l’unica eccellenza, l’unico vanto. Mi sono applicato, sono entrato a ingegneria. Mi sono laureato bene, e adesso sono stato assunto a Torino, costruiscono treni ad alta velocità. Sono venuto a salutare i miei, stanno a Marina Grande. E ho pensato a quel sette, e la volevo ringraziare. Tutto qui.»
Massimo lo fissava, senza alcuna espressione.
«Una camminata inutile, guaglio’. Io quel sette non te lo avrei messo mai, se non fosse stato esattamente il voto che ti meritavi. Come i tre e i due a quelle capre dei compagni tuoi, del resto. Quindi, non mi devi ringraziare.»
Il giovane sorrise:
«Esattamente quello che ero sicuro che mi avrebbe detto, professo’. Proprio con le stesse parole. E senza sorrisi, naturalmente. Ma se la ricorda, lei, l’ultima volta che ha sorriso?»
L’insegnante, o quello che era rimasto di lui come insegnante, si strinse nelle spalle:
«In questi anni di pensione ho capito che il sorriso è uno sforzo inutile, guaglio’. Basta il pensiero.»
Lombardi si alzò, approvando come se gli fosse stato impartito un insegnamento:
«A scuola ridevamo del suo nome: Massimo De Gaudio. Per uno che è il ritratto della tristezza, ci sembrava uno scherzo del destino.»
Massimo si alzò a sua volta, sovrastando l’ex studente di almeno quindici centimetri:
«E pure la tristezza è uno sforzo inutile. Come il vostro tentativo di pensare. Fai cose buone, guaglio’. E resta testardo, perché è l’unica cosa buona che tieni. Già tanto, tutto sommato.»
 
[da L’equazione del cuore di Maurizio de Giovanni, Mondadori, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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