Si chiama “The Premature Burial”, fu pubblicato la prima volta nel 1844 e, se non ricordo male, lo lessi quando avevo quattordici anni, non dormii per alcune notti, lì nacque il mio rapporto con l’infinito. Nel racconto di Edgar Allan Poe si parla dell’incubo principe per i claustrofobici, ovvero la sepoltura da vivi. Supplizio che viene rappresentato benissimo anche da Uma Thurman nel film “Kill Bill 2”, scena riprodotta dal vero in Gran Bretagna, da un uomo di origine polacca che ha sepolto viva, nello Yorkshire, sua moglie Michelina Lewandowska. La sfortunata signora è riuscita a salvarsi usando l’anello di fidanzamento che l’ha liberata dalla scatola di cartone nella quale era stata chiusa prima di essere sepolta. Dall’estremo della sepoltura passando per l’ascensore le sofferenze per i claustrofobici sono enormi, praticamente illimitate. L’aereo, come una stanza troppo affollata o una metropolitana valgono le parole dei Baustelle “Certe notti da nevrastenia da soffocare, apro la finestra e volo via si fa per dire. Come la ginestra nata sulla pietra lavica mi vedo lottare come mosca nel bicchiere, eppure Dio lo lascio fare”. Ed è giusto lasciare stare Dio nonostante la claustrofobia? Ma davvero la claustrofobia è una patologia riferibile solo alla paura degli spazi chiusi oppure è qualcosa di riferibile alla vita e connaturata ad essa?
Dal punto di vista scientifico la claustrofobia, descritta ovviamente un tanto al kg, è la paura di luoghi angusti, la percezione di una minaccia derivante dalla restrizione delle possibilità di movimento. Eppure un abito troppo stretto, una camicia troppo avvolgente al collo, possono evocare una sensazione di costrizione non molto dissimile da quella che si può provare in fila, fermi dentro una Smart in due, all’interno di una galleria interminabile. La vita stessa è una scatola chiusa, limitata tra la nascita e la fine. L’acquisizione della consapevolezza che il nostro permanere in questa dimensione è limitato evoca, in chi ci riflette, un sentimento di costrizione, di chiusura, di limitazione dei movimenti, che può essere associata alla sensazione di claustrofobia. L’essere delimitati in un perimetro temporale che per natura ci sopravvive e ci precede equivale a stare dentro un portacipria chiusi in una borsetta. Lo stesso rapporto con i nostri corpi è spesso claustrofobico, molti si sentono costretti in un’immagine di se stessi nella quale non si ritrovano, o troppo grassi, o troppo magri, troppo bassi, troppo uomini, troppo donne, ancora troppo giovani, troppo vecchi, troppi pochi capelli. Insomma il vestito che ci è stato cucito addosso ha le cerniere bloccate. Il rapporto con il tempo e la consapevolezza che la candela esaurendo la cera va inevitabilmente verso il buio, è il limite invalicabile che fa dell’esistenza un luogo chiuso.
Ci può salvare solo l’infinito di Leopardi, il poeta di Recanati “E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno”. Sant’Agostino poi sovverte tutto, scoperchia la “Premature Burial”. Il passato non esiste più, il futuro deve ancora arrivare, il presente è un battito di ciglia impercettibile tra il prima e il dopo. Il tempo quindi non c’è se non nella soluzione contraria alla claustrofobia, l’infinito. Ci si può salvare solo nella dimensione della vera libertà, trascendente dalle dimensioni di spazio e di tempo, perché entrambe delimitano il perimetro delle vicende umane creando la sensazione di asfissia. Giussani afferma che l’uomo può essere libero solo se ha un rapporto diretto con l’infinito, quell’infinito che per l’uomo di fede è il dialogo con Dio. Ma l’infinito esiste come via di liberazione anche senza dover per forza far ricorso agli strumenti del credente, non trovo contraddizione nel voler guarire dalla claustrofobia tra metafisica e laicità, tra religioso e irreligioso, il contrasto casomai è tra consapevolezza e inconsapevolezza tra chi ha visto il vetro dell’acquario e chi invece gira intorno alle alghe di plastica. Lo stesso Leopardi, citato poco sopra, ha un perimetro, che se non ateo è comunque agnostico, un rapporto con la fede fatto di domande senza risposte, ma che comunque non gli impedisce di cercare l’infinito. Quindi si potrebbe anche pensare ad un uso terapeutico, se non addirittura taumaturgico, del concetto di infinito, da contrapporre alla vita nella scatoletta. In fondo il pensare se stessi fuori dal contenitore di se stessi, fuori dalla vasca dei pesciolini rossi, fuori dagli incubi di Edgar Allan Poe e di Tarantino, è normale.
Agrado, nel film di Almodovar “Tutto su mia Madre”, si sentiva claustrofobica dentro il corpo di un uomo e spiega, in uno dei monologhi più belli della storia del cinema, quanto abbia speso per uscirne fuori e conclude dicendo “una è più autentica quanto più assomiglia all'idea che ha di se stessa”. Pirandello nel racconto “La carriola” è lapidario: Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza. L’infinito mi sembra tanto più ragionevole quanto più non trovo alternative per non rimanere chiuso in un ascensore.
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