Dacia Maraini: l’ininterrotto racconto della condizione femminile

Luigi Oliveto

24/11/2016

Complimenti a Dacia Maraini per gli 80 anni compiuti da poco, per i suoi occhi azzurri e sempre giovani. Per il suo costante impegno a raccontare la condizione femminile attraverso il tempo. Battaglia antica – quella dell’emancipazione della donna – ancora oggi segnata da drammi e violenze. Non è assente questo tema nemmeno nel romanzo “Bagheria”, il più autobiografico della scrittrice, in cui i ricordi dell’infanzia rivisitano un mondo (la Sicilia del secondo dopoguerra) dove il velo dell’ipocrisia, dell’omertà, di un distorto senso dell’onore cela grandi e piccole violenze consumate tra le pareti domestiche, la cui vittima era quasi sempre la donna. “Bagheria” è per la Maraini una riconciliazione (lucida e tenera) con la memoria, un racconto bellissimo di amore e dolore, miserie e nobiltà, profumi e disgustanti afrori. Nella consapevolezza – come ella stessa scrive – che “ogni rappresentazione, in quanto tale, contiene in sé delle verità che la verità conclamata non dice, non svela”.
 
 
Bagheria l’ho vista per la prima volta nel ’47. Venivo da Palermo dove ero arrivata con la nave da Napoli e prima ancora da Tokyo con un’altra nave, un transatlantico.
Due anni di campo di concentramento e di guerra. Una traversata sull’oceano minato. Sopra il ponte ogni giorno si facevano le esercitazioni per buttarsi ordinatamente in mare, con il salvagente intorno alla vita, nel caso che la nave incontrasse una mina.
Di quella nave conservo una piccola fotografia in cui si vede un pezzo di ponte battuto dal vento e una bambina con un vestito a fiori che le sventola sulle gambe magre. Quella bambina ero io, avevo i capelli corti, quasi bianchi tanto erano biondi, le scarpe da tennis rosse ed ero tenuta per mano da un ufficiale americano.
Ero molto amata dai marines americani, ricordavo loro le figlie bambine lasciate a casa. Mi colmavano di regali: barrette di cioccolata, scatoloni di polvere di piselli, bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse.
Uno di loro mi amò al punto da portarmi in camera sua facendomi fare tre piani di scale a piedi, di corsa, dietro le sue lunghe gambe di giovanotto. Quando, dopo avermi mostrato le fotografie della figlia di sei anni, cominciò a toccarmi le ginocchia, presi il fugone. E feci all’indietro, quasi rotoloni, tutte le scale che avevo fatto in salita con lui. Fu in quell’occasione che capii qualcosa dell’amore paterno, così tenero e lascivo a un tempo, così prepotente e delicato.
La notte sognavo di essere inseguita da un aereo che mitragliava i passanti, cacciandoli come farebbe un falco. Scendeva in picchiata e aggrediva alle spalle, lasciando dietro di sé un poco di polvere sollevata dal frullio delle ali e un sapore eccitato di paura e di fuga.
La morte e io eravamo diventate parenti. La conoscevo benissimo. Mi era familiare, come una cugina idiota con cui si ha voglia di giocare e da cui ci si aspetta qualsiasi cosa: sia un gesto affettuoso che un calcio, sia un bacio che una coltellata.
A Palermo ci aspettava la famiglia di mia madre. Un nonno morente, una nonna dai grandi occhi neri che viveva nel culto della sua bellezza passata, una villa del Settecento in rovina, dei parenti nobili, chiusi e sospettosi.
Al porto abbiamo preso una carrozza che ci avrebbe portati a Bagheria. L’abbiamo caricata di tutti i nostri averi che erano in verità pochissimi, essendo tornati dal Giappone nudi e crudi, con addosso soltanto i vestiti regalati dai militari americani, senza soldi e senza proprietà.
La carrozza prese per via Francesco Crispi, via dei Barillai, via Cala di porto Carbone, in mezzo a mozziconi di case buttate giù dalla guerra. Poi porta Felice con le sue due belle torri, il Foro italico, quella che una volta si chiamava Marina, vicino alla piazza Marina vera e propria dove si tenevano le più grandi feste palermitane, ma anche dove si eseguivano le impiccagioni, gli squartamenti.
Proseguendo, abbiamo imboccato la strada del mare, piena di curve, ancora non asfaltata, fatta di “balati” nei centri abitati e altrove semplicemente bianca di polvere e di terra.
Lasciavamo alle spalle il monte Pellegrino con la sua forma di torrematta, una Palermo tutta detriti e rovine. Ci inoltravamo nella campagna estiva dalle erbe bruciate, i corsi d’acqua secchi e riarsi.
A ricordare quel viaggio mi si stringe la gola. Perché non ne ho mai scritto prima? Quasi che a metterla su carta, la bella Bagheria, a darle una forma, me la sentissi cascare addosso con un eccessivo fragore di lontananze perdute. Una fata morgana? Una città rovesciata e scintillante in fondo a una strada pietrosa, che ad avvicinarsi troppo sarebbe svanita nel nulla?
 
[da Bagheria di Dacia Maraini, Rizzoli, 1993]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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