Crudeli, Pignotti e Fiacchi. C’erano una volta i favolisti…

Massimiliano Bellavista

19/02/2020

Rudyard Kipling scrisse una volta una poesia che iniziava così: Quando si vuole che resti alcunché celato, poiché la verità è di rado amica delle folle, gli uomini scrivono favole, come il vecchio Esopo, scherzando su ciò che nessuno oserebbe nominare. E ciò fanno per necessità o accadrebbe, altrimenti, che, non piacendo, non sarebbero affatto ascoltati. La poesia si intitola “I Favolisti” e Kipling la compose nel 1917. Il sottotitolo, “1914-1918”, avessimo ancora dei dubbi, la situa nella storia ancor più precisamente rendendo lampante a tutti a quali verità scomode e pertanto celate l’autore volesse alludere. Il Novecento, con le sue atroci guerre mondiali si era divorato e aveva già a quel tempo sommerso tutto un genere, quello dei poeti favolisti. Parlarne adesso è qualcosa di più che riportare a galla dei sommersi, è un’operazione degna di un batiscafo letterario.

Non che l’Ottocento si fosse comportato molto meglio con le favole in versi, ancorché i Romantici ne esaltassero le possibilità di levare le briglie alla fantasia, pur trovandolo complessivamente come genere un po’ compassato e vecchiotto. Fu infatti essenzialmente grazie ai perfetti congegni poetici del La Fontaine che le favole in versi conquistarono il mondo nel Settecento, secolo di assoluta grazia del genere, in cui non c’era angolo d’Europa che non vi si cimentasse. Non c’era aspetto della vita quotidiana che avesse un pur recondito risvolto morale che non venisse esplorato o messo alla berlina. La cosa curiosa è che in quel secolo la regione in Europa dove questo particolare tipo di poeti si trova più concentrato è proprio la Toscana. In Europa a quel tempo bisognava viaggiare molto per trovare favolisti di livello: in Inghilterra Gay o Moore, in Germania Gellert o il più conosciuto Lessing. In Italia e in Toscana non c’era da girovagare molto, bastava spostarsi da Poppi a Figline Valdarno fino a Scarperia.

Tommaso Crudeli il casentinese, Lorenzo Pignotti il valdarnese, Luigi Fiacchi detto Clasio il mugellano; probabilmente quanto di meglio l’Italia poteva offrire in quel momento. Anche perché era facile allora per i poeti indugiare in mode e pose di maniera affatto originali che facevano durare i loro componimenti più o meno lo spazio della vita di una farfalla: imperversavano i sonetti e le canzoni per nozze, nascite, monacazioni, ricuperata salute, mascherate, lauree, quaresimali, cantanti, danzatrici, messe novelle, doni divini, di frutta, di fiori, passeggiate, ogni minimo caso della vita giornaliera, come la caduta di un ventaglio, un dolor di capo, una bizza, una contesa, una cavata di sangue. Tutti e tre invece scrissero cose destinate a durare pur avendo caratteristiche assai diverse, sfumature e interessi differenti derivanti dal corso talvolta peculiare delle loro vite.

Il Crudeli ebbe un singolare destino, in quanto fu in vita tanto provocatore e imprudente quanto i suoi epigrammi e ciò gli valse l’attenzione del Sant’Uffizio. E della poi abolita Inquisizione. Nel 1745 fu l’ultimo martire, visto che la sua vicenda portò proprio alla soppressione del Sant’Uffizio fiorentino e la successiva abolizione della pena di morte in Toscana, primo stato al mondo, giova ricordarlo, ad averla messa al bando. Il Pignotti dei tre è da sempre considerato il migliore. Di conseguenza si tratta del migliore dei favolisti italiani del Settecento. Storiografo granducale, incontrò Napoleone per tentare di dissuaderlo dall’occupazione del porto di Livorno nel giugno del 1796. Pare che Napoleone lo abbia colto con grandissima cortesia, ricordandogli che suo fratello maggiore, Giuseppe Bonaparte, era stato suo alunno a Pisa. Da cui discendono due considerazioni: la prima è che il mondo era piccolo anche allora, la seconda che Napoleone si intendeva anche di favole e doveva possedere un buon grado di autoironia.

Nel vasto repertorio del Pignotti infatti, ci sono molta satira ed ironia, e tutto ciò fa bella mostra di sé ne “La volpe scodata”, che inizia così: Sotto l’adunco dente/di tagliola tagliente/una volpa la coda avea lasciata/e la sua vita a gran stento salvata.  Arriva il giorno della grande adunata annuale delle volpi e lei si mette in un angolo, defilata, si sarebbe detto con la coda tra le gambe, se solo l’avesse ancora avuta. Poi, le viene in mente come nascondere il suo problema: Cominciò con forza a declamare/(…)/contro la strana moda/ di portare la coda. Geniale. L’animale illustra con convinzione quanto quelle loro gran code si impiglino in ogni dove, si riempiano di sporcizia, costituiscano addirittura un pericolo e conclude: Or sarei di parere/che con pubblica legge s’ordinasse/ch’ogni volpe la coda si tagliasse. Capolavoro di retorica convincente a tal punto che quasi viene preso sul serio dall’Assemblea; non fosse che una volpacchiotta, che di sua coda aveva vanità, le chiede, letteralmente, di “mostrare il di dietro”. Succede allora che A voltarsi la volpe allor costretta, /mostrò le sue disgrazie, e colle risa/la question fu decisa./ Ognuno i suoi difetti e i suoi mali/ render vorrebbe al mondo universali.

Il Clasio invece non si fece molto coinvolgere dalla politica, se ne stava appartato, interamente dedicato ai suoi studi, pienamente a suo agio nelle Accademie, dove poteva fare sfoggio delle sue capacità. Gli animali che si aggirano nelle sue poesie hanno ben poco di animalesco, sono dei filosofi mascherati, degli esseri a tratti un po’ malinconici e disillusi. Ma sotto sotto, anche lui è feroce col suo mondo. Tra tutte le sue storie, davvero molte e assai gustose, citiamo quella de “L’asino che porta il concime e quindi i fiori”. Quando passava per il paese carico di concime ciascun che l’incontrava a si molesto / fetor chiudeasi il naso, e si fuggia, mentre l’asino pensava invece di incutere timore e rispetto ai suoi compaesani. Quando transitava per le vie del centro di ritorno dai campi carico di fiori all’apparir dell’asino fiorito/ vennergli incontro i cittadini a schiere/chi voleva odorare, e chi vedere, la bestia riteneva di essere omaggiato come una star.  Ci vuole allora il cane del contadino a riportarlo coi piedi per terra. Quel cane lo apostrofa così: O barbagianni, / nel tuo creder così quanto t’inganni! /tutti della città gli abitatori/fuggon dal concio, e non a te fan loco:/ corron si tutti alla beltà de’ fiori,/ma non pensano a te punto né poco,/Si disse il cane da persona esperta,/ e l’asino rimase a bocca aperta.  E come altro poteva rimanere?

Sotto queste parole apparentemente lievi, non era infrequente che i nostri tre celassero verità assai scomode, satira non gradita ai potenti dell’epoca, addirittura si dice contenuti in codice a beneficio di poche orecchie esperte. Ma che è successo quando su questo genere si son spenti i riflettori? È successo che di loro tre a cominciare dalle scuole si legge poco e si sa ancor meno. Ma questo i favolisti lo sapevano bene e, conoscendoli un po’, direi che non se la sono presa, almeno a giudicare da come si chiude la poesia di Kipling che citavamo all’inizio: Questo fu il sigillo che serrò le nostre labbra, questo il giogo cui siamo sottoposti, negando a noi stessi ogni piacevole compagnia confacente al tempo e alla nostra generazione. I piaceri non perseguiti diventano rimpianti, e quanto ai dolori - non si è affatto ascoltati. Quale uomo ode altro che il brontolio dei cannoni? Quale uomo si cura d'altro che di quel che porta l'attimo? Quando la vita di un uomo supera ogni vita immaginata, chi mai troverà piacere nell'immaginare? Così è accaduto come proprio doveva accadere, e noi non siamo, né fummo, affatto ascoltati. Sì, non se la prenderanno, a patto che ogni tanto li leggiamo ancora. Così “c’erano una volta” diventerà “ci sono ancora”.
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Massimiliano Bellavista

Massimiliano Bellavista
Massimiliano Bellavista è consulente di direzione, blogger (www.thenakedpitcher.com) e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Scrive una rubrica fissa per la rivista stroncature.com. Tiene regolarmente seminari di scrittura e in merito alla valorizzazione ed alla comprensione del libro antico come bene letterario e culturale. A Siena anima la scuola di scrittura Recensio. Riguardo alle sue opere di narrativa, poesia e management, pubblicate in italiano ed in inglese, tra le più recenti ricordiamo: Le reti d’impresa (Franco Angeli, 2012); Anatomia dell’invisibile (Tabula Fati, 2017); L’ombra del Caso (Il Seme Bianco 2018) e The Naked Pitcher (Licosia 2018); Dolceamaro (Castelvecchi 2019); Marketing e management degli impianti sportivi (Azzurra 2019); Vertical Farming (Licosia 2019)
 
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