Nessuno vorrebbe trovarsi nelle situazioni dei protagonisti del romanzo “Cosa faresti se” di Gabriele Romagnoli. Già il titolo mette in allerta e ciò che ne segue è roba molto seria, ha a che fare con la coscienza. Queste le storie. Laura e Raffaele sono una coppia che desidera adottare un figlio, viene proposto loro di accogliere una bimba molto malata e nel giro di una notte dovranno dare una risposta. Poi c’è Adriano. Mentre guarda un video sul cellulare, apprende che suo figlio, cui aveva prestato la macchina, ha investito un uomo senza fermarsi a soccorrerlo. Ad Adriano, che da quando ha perduto la moglie, vive in un perenne stato di incertezza, è chiesta ora una decisione: se denunciare il figlio o prendersi lui la colpa. Ancora più pressante risulta la situazione di Giovanni, il tassista Urano 4, che in un solo istante deve assumere una risoluzione molto importante. E ugualmente stringenti sono le circostanze degli altri protagonisti. Tutti sono chiamati a fare scelte che andranno a segnare per sempre le loro esistenze. Dovranno misurarsi con le complicate ragioni della generosità e dell’egoismo, valutarsi rispetto a valori, idee, sentimenti. Stabilire la cosa giusta, vagliare la propria umanità, essere sinceri con sé stessi. Le diverse vicende hanno un sottile legame, condividono un patema: dover prendere una decisione non oltre sei giorni e, giunti al settimo, ripresentarsi insieme per una sorta di giudizio finale.
Inevitabile, per chi legge, non lasciarsi interpellare dagli stessi dubbi che tormentano i protagonisti del romanzo, dai loro dilemmi. Un test, insomma, per stimare la nostra idea (idealità) di vita; e prepararsi a quella domanda che in un qualsiasi frangente della nostra esistenza potrebbe esserci posta: cosa faresti se.
***
[…]
“La bambina ha una malattia. Non curabile.”
La prima cosa che Raffaele pensò fu: ha voluto conficcare il pugno fino in fondo al nostro stomaco. E vedere se respiriamo ancora. Se riaffioriamo dalla profondità in cui ci ha scaraventati con questa rivelazione. Non si è limitata alla malattia, ha aggiunto: non curabile. Adesso, brava gente, la volete ancora?
La prima cosa che Laura pensò fu: niente. A lei l’onda era arrivata in faccia, non sopra la cintura. L’aveva travolta. Schiuma bianca, luce bianca. Immobile, le mani sui braccioli della sedia, incapace di stringerli, svuotata. Tutta l’aspettativa e la gioia repressa implosero. Poi, una sola parola sullo schermo della mente, come miliardi di persone prima e dopo di lei, una domanda senza risposta nella notte di ogni religione: Perché? Non riusciva neppure a completare il pensiero: Perché a noi? Di più: Perché proprio a noi?
Raffaele era arrivato direttamente dall’università, non si era preparato per l’occasione. Indossava i pantaloni di tela scura, la giacca blu, la camicia di jeans con l’ultimo bottone slacciato e la cravatta di lana dello stesso blu della giacca con il nodo allentato: l’uniforme che si era scelto come professore di psicologia sociale. Come cittadino. Come uomo. La sua bandiera. Si sentiva sicuro così. Giusto, così: nella parte e in se stesso. Aveva tenuto il telefono spento mentre faceva lezione. Quando lo aveva riacceso lo aspettava il messaggio di Laura.
Lei invece si era vestita per la circostanza, cambiandosi tre volte prima di decidere per i pantaloni morbidi e scampanati color tortora, la maglia blu con lo scollo a barca e quel giubbotto di cuoio comprato in viaggio, in un emporio di abiti usati in Arizona. Le scarpe, invisibili, avevano un tacco di otto centimetri che la portava a sfiorare l’altezza del marito. Aveva ricevuto la convocazione mentre stava cercando di scrivere una traccia del percorso di emozioni – lo chiamava così – che avrebbe dovuto far suscitare al politico per cui lavorava. La sua creatura: questo invece era un termine coniato da Raffaele, tra spregio e ironia. Non lo avrebbero usato mai più.
Non si guardarono. Restarono entrambi a fissare il giudice. Era donna, era bionda, aveva la mascella squadrata e le spalle da nuotatrice, probabilmente lo era stata.
Nuotava ancora, due volte a settimana, in una piscina spartana, gestita dalla madre di un ex atleta, lo spogliatoio di panche sverniciate, i rubinetti della doccia che chiudevano senza decisione, tre corsie dedicate alla ginnastica in acqua, con signore sovrappeso che si agitavano scomposte mentre lei, cuffia intonata al costume, occhialini trasparenti, tappi nelle orecchie, faceva le sue ottanta vasche, due chilometri esatti, regolare e inflessibile, pensando inizialmente ai casi di cui avrebbe dovuto occuparsi, poi lasciando andare la mente, ma in perimetri delimitati, cercando di ricordare con esattezza tutti gli uomini con cui era stata, in ordine cronologico, alfabetico o di valutazione. Come per i sette nani o gli Stati Uniti d’America: ogni volta ne mancava uno. Il mistero era che non fosse mai lo stesso. Il suo sguardo non puntava su di loro, era sceso alla cartellina che aveva sulla scrivania: i documenti della bambina abbinata a questa coppia, che sapeva di aver abbattuto con una frase. Allo smalto sulle unghie, messo quella mattina dopo la piscina, che sua madre avrebbe criticato. Per lei era neutro, pieno di stile. Per sua madre sarebbe stato insulso, privo di personalità. Rialzò lo sguardo.
Si era aspettata domande, invece non erano arrivate.
Disse: “Ha otto anni. È italiana. Non ha fratelli o sorelle. Ma purtroppo ha questa malattia rara”.
Quando la nominò, la donna la guardò come se avesse sentito un annuncio in un aeroporto straniero, in una lingua per lei incomprensibile. L’uomo stava cercando di processare l’informazione e di elaborare una strategia di comportamento dignitoso: tutte reazioni che il giudice aveva già visto molte volte. Era il momento della verità, quello in cui la vita esce dal gioco delle ipotesi e diventa un labirinto di realtà, ogni scelta ti porta in una direzione senza ritorno e alla fine puoi non sapere più dove sei, ma sai per certo chi sei.
L’uomo sembrava più presente e, soprattutto, sembrava avere idea di che cosa lei avesse evocato.
Fece riferimento ad alcuni sintomi che il magistrato confermò.
La moglie lo guardò sorpresa, come se in quella lingua sconosciuta lui si fosse messo a parlare, per di più discutendo un argomento non essenziale come una ritardata partenza.
Il giudice capì che era venuto il momento di mostrare comprensione e accarezzare chi aveva appena tramortito.
Disse: “Io non sono un’esperta, ma ho dato un’occhiata al fascicolo, poi potete documentarvi da soli, non dovete darmi una risposta immediata”.
Guardò la sveglia da scrivania in acciaio, con il marchio di un noto stilista francese, regalo di sua madre, un vezzo che alludeva al superfluo in un luogo di scelte essenziali: “Possiamo rivederci qui, domattina alle nove”.
Laura si riscosse: “Noi non possiamo vederlo, quel fascicolo?”.
“No. Come sa, è riservato.”
“Ma in quell’occhiata lei che cosa ha letto che possa dirci? Anche da non esperta.”
Il tono della sua voce era salito. Inerpicandosi su una rabbia imprevista era divenuto stridulo.
Raffaele intervenne: “So poco di questa malattia. La ebbe il padre di un mio amico. E poi suo figlio”.
Laura lo guardava incredula: le sembrava stesse partecipando a un quiz televisivo, perfino soddisfatto di conoscere la risposta.
“Ma, mi scusi,” rivolto al giudice, “di solito si manifesta molto più avanti, nella mezza età, e lei ha detto che la bambina ha otto anni.”
“Infatti. Di solito. Ci sono le eccezioni, in quei casi i primi sintomi affiorano nell’infanzia: a livello sia psichico sia fisico. Ma qui più che di sintomi si è trattato di un’intuizione. O forse una deduzione. Perché la malattia...”
“È ereditaria,” finì Raffaele.
“Ma può saltare una generazione,” precisò il magistrato.
“Ah, ecco,” commentò Laura, immaginandosi, chissà perché, il padre della bambina che ballava un merengue in un locale alla periferia di una città di provincia, il tetto di lamiera, l’espressione sollevata di chi si è liberato di un problema: ha saltato una generazione, eh, ballerino del cazzo.
Raffaele disse: “Otto anni... immagino abbia già avuto dei tentativi, delle proposte, abbinamenti, come li chiama...”.
“Professor Viscardi, come le ho detto: la riservatezza è assoluta.”
Avrebbe potuto fermarsi lì, ma aveva già passato troppi anni in quell’incarico per provare empatia, figurarsi pietà.
“Non pensate che la vostra decisione possa assumere un valore diverso perché è conforme... o perché non lo è. Qui non entrano canaglie e non escono eroi, ma solo persone che cercano di diventare genitori. E qualche volta scoprono fino a che punto lo vogliono davvero. Pensateci. Avete la notte.”
[da Cosa faresti se di Gabriele Romagnoli, Feltrinelli, 2021]
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