Con Veronica Raimo si ride per non piangere

Luigi Oliveto

17/02/2022

L’ironia è una bella declinazione dell’intelligenza. È psicoanalisi, verità, gaia compassione, carta abrasiva; relativizza ambasce, ci imbarca verso salvezze low cost. Leggasi in proposito “Niente di vero”, ultimo romanzo di Veronica Raimo (Einaudi) dove, allegramente sospinti in un interno di famiglia, ciascuno può ritrovare pezzetti della propria esistenza e dei ruoli di volta in volta interpretati (genitori, figli, fratelli, attori non protagonisti). Nel racconto di Veronica Raimo, ad essere messe in scena sono le nevrosi di una famiglia su cui spicca quella di una madre ansiosa che per esorcizzare sciagure le pensa già accadute, di un padre maniaco dell’igiene e dell’organizzazione degli spazi all’interno del piccolo appartamento trasformato in una sorta di allestimento teatrale a quinte mobili, di un fratello la cui genialità si manifestò all’età di tre anni allorché al ristorante prese il menu leggendolo tutto ad alta voce davanti a un cameriere spazientito. E poi lei, figlia e sorella, che in un esilarante (impietoso) flusso di coscienza racconta di questa sua noiosissima famiglia: “Io e mio fratello siamo diventati tutti e due scrittori. Non so cosa risponda lui quando gli chiedono come mai, io dico che è grazie a tutta la noia che ci hanno trasmesso i nostri genitori”. Giusto nel tedio e nei paradossi di quella casa, sempre lei, per costruire sé stessa, aveva dovuto di necessità bluffare, “immaginare cose finte, dirle, provocarle, fino a crederci”. È infatti a questo continuo esercizio di impostura che allude il titolo del romanzo e che sembra giocare con il nome dell’autrice: niente di Vero. Ma pure a prezzo di qualche trauma si cresce comunque, si diviene donna e si ricorda come lo si è diventata. Sembrerà strano, ma per raccontarlo senza infingimenti, la chiave migliore è la commedia. Del resto la vita procede per contrari, e in fondo al ridere muove spesso la smorfia del dolore.
 
***
 
Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice.
In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi.
Mio fratello muore tante volte al mese.
È mia madre a chiamare per avvertirmi della dipartita.
– Tuo fratello non mi risponde al telefono, – dice in un sibilo.
Per lei il telefono certifica la nostra permanenza sulla Terra, in caso di mancata risposta non esistono altre spiegazioni che una cessata attività vitale.
Quando mi chiama per dirmi che mio fratello non c’è più, non vuole essere rassicurata, ci tiene piuttosto che partecipi al cordoglio. Patire insieme è la sua forma di felicità: mal comune, gaudio totale.
A volte le ragioni del decesso sono banali: una fuga di gas, un frontale con l’auto, una botta in testa dopo un brutto scivolone.
Altre volte gli scenari si fanno più complessi.
La scorsa Pasquetta, dopo la telefonata di mia madre, è arrivata quella di un giovane carabiniere:
– Sua madre ha denunciato la scomparsa di suo fratello, conferma?
Non si sentivano più o meno da un paio d’ore. Lui era a pranzo fuori con la fidanzata, lei si tormentava sul perché non fosse a pranzo con chi l’aveva messo al mondo.
Ho cercato di tranquillizzare il giovane carabiniere, era tutto sotto controllo. – No, – è sbottato, – non è tutto sotto controllo, al centralino stanno sbroccando.
In quella particolare circostanza mio fratello non era ancora morto, ma ridotto in fin di vita. Si trovava in un garage dopo essere stato sequestrato e torturato da aguzzini del Partito democratico. Era da poco diventato assessore alla Cultura al Terzo municipio di Roma e di tanto in tanto capitavano delle scaramucce con i colleghi di partito.
– Non devi bisticciare con nessuno, – si era raccomandata mia madre.
– Mamma, non bisticcio, faccio politica.
– Va bene, ma poi fate pace.
Dopo aver appurato che suo figlio è ancora vivo, mia madre si sente sempre mortificata. Fa il broncio contrito di una dodicenne. E anche la voce da dodicenne. Come si fa a prendersela con una bambina?
– Dici che dovrei portare delle paste ai carabinieri? – mi chiede con la vocetta.
Chissà poi perché ha chiamato i carabinieri e non la polizia. Non ho il coraggio di approfondire la questione perché potrebbe raddoppiare le telefonate. I pompieri, ad esempio, la protezione civile. Non ci ha mai pensato.
Per tutta la durata del panico, mia madre contratta col Signore e si impone dei fioretti. Non mangiare dolci, non andare al cinema, non leggere le riviste, non sentire Radio 3, per giorni, mesi, anni. Attualmente non può andare dal parrucchiere e non può guardare la televisione. A volte l’abbinata è niente Radio 3 e niente dolci. O niente caffè e scarpe nuove. Ci sono incastri, accoppiate, dipende.
La vado a trovare perché sono preoccupata.
– Ah, Verika, sei tu? – Mia madre mi chiama Verika. – Speravo fosse tuo fratello.
Lei vive ancora nella casa dove sono cresciuta, in un quartiere residenziale alla periferia nord-est di Roma. Lo stesso municipio dove suo figlio è diventato assessore alla Cultura. Vorrei convincerla a convertire almeno uno dei fioretti in un’azione propositiva: – Fai un po’ di volontariato, – le dico, – sono sicura che il Signore sarà d’accordo.
Lei scuote il capo e intanto mi chiede di accendere la televisione e dirle cosa succede nel mondo. Si copre gli occhi con le mani ma la vedo sbirciare tra indice e medio. Cerca a tentoni il telecomando e alza il volume: – Eh, non si sentiva niente.
Quando mio fratello era in ostaggio dei torturatori del Pd, mia madre aspettava tremante la telefonata fatale: – Avevo giurato a me stessa che mi sarei buttata dalla finestra.
– Che bel pensiero, mamma. Così avrei fatto Pasquetta con mio fratello trucidato e mia madre schiantata al suolo.
Poi mi assale un dubbio: – Ma se avessero fatto fuori me, ti saresti buttata lo stesso?
Silenzio.
Non mi guarda perché ha ancora una mano davanti agli occhi.
– E quindi? Ti saresti buttata?
– Eddai, non fare queste domande sceme.
Quando torno a casa mia e ci ripenso, c’è qualcosa che non quadra in quella scena di mancato suicidio. Non c’è una sola finestra a casa dei miei genitori da cui sia possibile buttarsi di sotto. Sono troppo piccole perché sono state tutte tagliate a metà.
Mio padre aveva la smania di dividere le stanze, senza alcun motivo. Semplicemente ci costruiva dentro un muro. Costruiva muri nelle stanze, non si può dire in altro modo.
Vivevamo in quattro in un appartamento di sessanta metri quadri dove era riuscito a ricavare tre camere da letto, una sala, una cucina, un tinello, una veranda e due bagni, più un lungo cunicolo soppalcato che correva lungo tutta la casa e abbassava il soffitto. Una persona particolarmente alta ci avrebbe sbattuto la testa, ma nessuno in famiglia aveva questo problema.
Non esistevano porte vere e proprie, solo porte a scomparsa senza serratura. Era come vivere dentro un allestimento teatrale, le stanze erano puramente nominali, simulazioni a beneficio degli spettatori.
Per un certo periodo della mia infanzia, la mia cameretta è esistita solo di notte. Di giorno tornava a essere un corridoio. La sera, quando dovevo andare a dormire, tiravo due porte a soffietto e buttavo giù un pezzo di muro che in realtà era un letto ribaltabile. La mattina spariva tutto, si cambiava scena. Si spostavano pannelli, si alzavano sipari. In seguito, la mia cameretta è stata trasferita dentro quella di mio fratello, un parallelepipedo piazzato in un angolo della stanza come fosse uno sgabuzzino messo per orizzontale. La finestra – come tutte le altre – era stata segata a metà dal muro: se volevo affacciarmi al mondo, dovevo accontentarmi di un’anta grossa quanto uno sportello da frigobar.
«Volevo dirti solo che non ci saresti passata dalla finestra», scrivo a mia madre.
«Grazie, tesoro, – mi risponde, – prendo nota».
 
[da Niente di vero di Veronica Raimo, Einaudi, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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