Come una piuma. Il disagio dell'anoressia raccontato in un romanzo coraggioso di Rosalia Pucci

Rosalia Pucci

21/08/2018

Pubblichiamo volentieri un estratto da "Come una piuma" (Prospero editore), romanzo di Rosalia Pucci. Il libro che sta riscuotendo molta attenzione e anche lettori Vip come Luca Carboni (qui in foto), racconta il disagio intenso, quello che si scatena come un demone quando si ha a che fare con l'anoressia. Cecilia vive questo disagio nonostante l'amore intorno a lei di un'amica meravigliosa che la mette sempre al primo posto, anche quando è lei che ha bisogno di aiuto e di vita. Una storia bella, che descrive bene le sensazioni di inadeguatezza, di malessere profondo che questa malattia scatena. C'è però anche tanta speranza, voglia di vivere e voglia di amore. La scrittura è lineare, a tratti lirica, molto bella, mai banale.
Un libro nonostante tutto lieve come una piuma, appunto. L'autrice stessa dice di questo lavoro che «tratta una problematica diffusa e controversa, ma non per questo meno urgente. Si tratta di un romanzo e come tale racconta, non vuole insegnare. Pone degli interrogativi, però, e aiuta a riflettere, per questo ritengo sia una lettura da proporre». Noi, con lei, condividiamo il punto di vista e vi proponiamo la lettura di un brano per gentile concessione dell'autrice.



Dicembre 2008, domenica
In tutti i drammi che mi riguardano, c’è sempre stato l’aspirapolvere di mia madre in sottofondo, ossessivo compulsivo come lei nel cercare i granelli di polvere che non hanno il tempo di depositarsi nella nostra casa. Guardo la bocca insaziabile ingoiare pelucchi, acari, palline minuscole.
Immagino il sacco pieno degli scarti di una vita, mentre la mia pancia è vuota da tre giorni.
C'è stato un tempo in cui riuscivo ad assaporare la gioia, cogliendone ogni minima sfumatura, me ne sfamavo in vista degli inevitabili digiuni.
Il presente è un unico, disarmante, digiuno.
Spengo il cellulare. Veronica mi ha chiamato per via della festa che darà sabato a Capo Rizzuto. Detesto i raduni di sorrisi contraffatti dove tutto ruota intorno a tavole imbandite di cibo. Ma andrò. Veronica è la sorella che non ho mai avuto e ha bisogno di me.
«Non fare scherzi, guarda che senza di te non potrà essere la stessa cosa!» un sibilo ha spezzato il tono perentorio della mia migliore amica.
Mi raggomitolo sul divano mentre il rumore infernale mi fa sobbalzare.
Uscire, andare via, un tempo c’ero riuscita. Poi sono precipitata nell'ennesima ricaduta e stare qui è la garanzia per assicurarmi la sopravvivenza. Con i miei che minacciano di ricoverarmi di nuovo, tento la risalita.
Si sono staccati due ciuffi di capelli stanotte, li ho trovati sul cuscino, brutto segno. Quando cominciano a cadermi i capelli, il ricovero non è più un'eventualità.
Ora però non c'è tempo, devo dedicarmi a Veronica, la creatura che da sempre illumina la mia vita.
«Solleva le gambe Bianca, non vedi che devo togliere la polvere da sotto il divano? Non potresti andare di là a scrivere?» Meccanicamente tiro su le ossa che ho al posto delle gambe e appoggio la testa tra le ginocchia sporgenti.
Mia madre sa che mi ha appena chiamato Veronica, ha sentito la nostra conversazione, ma non chiede nulla. Come sempre.
Se dico qualcosa mi ascolta. Se taccio, tanto meglio, la sollevo da un dovere. E continua a esplorare ogni pertugio del salotto con quella specie di mostro, diventata ormai un'appendice del suo braccio.

Ottobre 1983
Entrai in classe con il fiato corto. C'era da scalare una montagna di gradini per raggiungere il Liceo Classico di Crotone.
Rimasi immobile sulla soglia, erano già tutti seduti e io non ero invisibile. Attraversai le forche caudine degli sguardi curiosi. Una carrellata di volti anonimi.
Avevo lottato per andare in quella scuola, i miei ripetevano che un diploma di ragioneria era più spendibile e che il liceo, al contrario, non sarebbe servito a un granché se non avessi proseguito gli studi. Ma io avevo le idee chiare a questo proposito: laurearmi e andare via dalla Calabria, dove le speranze di realizzare i miei sogni erano esigue.
L'unico banco vuoto era in fondo, accanto alla parete da dove si apriva una vista mozzafiato. Guardando la distesa azzurra ebbi un'illuminazione: quelle acque avevano ospitato gli antichi galeoni fenici e greci, rappresentavano la culla della civiltà mediterranea. Provai un'ondata d'orgoglio: Pitagora aveva abitato a Crotone, oltrepassato lo Ionio prima di raggiungere le coste della Magna Grecia. L'immagine che si apriva davanti ai miei occhi fu decisiva: avrei fatto onore a quel mare.
Il mio mare, un punto fermo, freddo anche d'estate, arcano, ricco di vegetazione, arso di salsedine, uggioso, incapace di sottostare allo sguardo che cerca l'orizzonte per placare le vertigini provocate dallo spazio senza fine. Il vincolo che c'è tra un Cotronese e il mare è un patto a vita, scolpito nei geni.
«Anania!» La professoressa di lettere mi squadrò alzando i piselli neri che aveva al posto degli occhi, puntandomeli in faccia. Inauguravo l'appello, a dispetto dell'ultimo banco. E perdevo i contorni definiti di me: la spersonalizzazione che la scuola opera man mano che si sale di grado era iniziata. Non ero più Bianca, la studentessa modello, uscita dalla scuola media con una menzione speciale per i voti ottenuti all'esame, amata dagli insegnanti perché affidabile.
Diventavo un cognome con la A e basta, senza passato e con un futuro da costruire.
La B era la mia vicina di banco, matassa di capelli colore del grano, occhi verdi, bocca carnosa. Si girò verso di me facendomi l'occhiolino. Un momento topico: quell'occhiolino scriveva un capitolo inatteso, metteva in moto la voglia di girare un'altra pagina della vita, suggellava il passaggio tra ciò che era stato e ciò che non era ancora. Non era un semplice gesto, diventava, inconsapevolmente, il simbolo di qualcosa che mi sarebbe appartenuto per sempre.
 
Dicembre 2008, domenica
Mio padre se ne sta seduto al tavolo da pranzo con la radio attaccata all’orecchio. L'aspirapolvere intorno ai suoi piedi produce un rumore infernale. Impavido, ascolta le ultime notizie. L’aspirapolvere lo incalza, lo minaccia. Ma lui resiste.
È un combattente atipico, lotta per mantenere i propri spazi nella casa in cui da sempre mia madre è la dominatrice incontrastata. Salvo poi battere in ritirata al primo cenno di guerra.
Conosce alla perfezione i segnali: di lì a poco mia madre avrà un attacco di nervi. E lui non ci sta a farsi prendere a male parole per due ore di fila. Si trascina dal tavolo alla poltrona senza distaccare la radio dalla testa. Mi giunge il chiacchiericcio dello speaker. Si parla del processo Busneghi, i bastardi sono tutti condannati. Se non provassi una stanchezza mortale, mi metterei a saltare dalla gioia. Marciranno in galera.
Assaporo l'immagine del primo giorno di liceo, che ho fermato sul foglio bianco del quaderno. Mi ci aggrappo perché non ritorni nel dimenticatoio: Veronica composta al suo banco, la massa di ricci a contornarle il volto. Mi guarda e mi fa l'occhiolino.
Non aspettò di sapere chi fossi o da dove venissi, per farmi capire che ne avremmo fatta di strada insieme. Quell'occhiolino per me fu una promessa che non è mai venuta meno.
Quanta strada abbiamo percorso tenendoci per mano, lei sempre un passo avanti a me, il suo braccio capace di tirarmi con forza, quando il mio incedere si faceva recalcitrante.
Pronta a fermarsi e a sedermi accanto quando la malattia mi impediva di continuare. Non le importava di rinunciare a una fetta di futuro per me.
Solo chi ha la fortuna di avere un'amicizia così può capire.
Io questa fortuna l'ho avuta. Se l'abbia meritata, non lo so.
Non credo di essere degna di alcunché. L'amicizia di Veronica è stato un dono immotivato e forse proprio per questo tanto prezioso.
Da quel giorno, da quell'occhiolino, ho imparato il valore della gratuità.
Ho imparato a dire grazie.
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Rosalia Pucci

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