Le guerre sono anche freddi numeri. Quelli che oggi si contano a Gaza testimoniano quale inferno sia stato creato in quella striscia di terra dove vivevano 2 milioni di persone in 365 chilometri quadrati. Da analisi statistiche indipendenti, effettuate dai ricercatori della London School of Hygiene & Tropical Medicine e pubblicate sulla rivista ‘The Lancet’, apprendiamo che i morti causati dagli scontri sarebbero attualmente oltre 70.000, al 59% donne, bambini e anziani. Il numero delle vittime supererebbe dunque almeno il 40% della cifra diffusa dal ministero della Salute palestinese. Dati crudi e sconvolgenti, a maggior ragione se per ciascuno di quei numeri immaginiamo un volto, storie, affetti. Laddove è guerra, vivere non è altro che sopravvivere, salvare corpo e, possibilmente, anima. Per portare in salvo la seconda occorre talvolta crearsi mentalmente una realtà parallela, spinta magari agli estremi della bugiardaggine e del paradosso. È quanto suggeriscono i racconti di Mazen Maarouf, raccolti sotto il titolo “Come un giorno di sole in panchina”, tradotti per Sellerio da Barbara Teresi. Maarouf, scrittore, poeta, giornalista, è nato a Beirut in una famiglia di profughi palestinesi ed oggi vive tra Beirut e Reykjavík, dove è stato accolto nel 2011 come rifugiato. Le sue storie sono ambientate tra Libano e Israele, Beirut e i Territori Occupati. Storie giustappunto paradossali, poiché per scampare alla tragedia occorre scardinare la realtà con tutti i mezzi: fondamentale è il grimaldello della fantasia, e persino della comicità. Leggiamo allora di una mucca utilizzata per un attentato, di un padre obbligato dai servizi segreti a prendersi cura dei propri figli, di un ragazzo disposto a vendere i suoi sogni a un rivale in amore, di una bambina disabile con il dono di acchiappare e neutralizzare i proiettili, e di un’altra bambina che si reinventa il mondo facendo bambole all’uncinetto (bambole, però, prive di occhi). Quattordici racconti in cui Mazen Maarouf – che mostra particolare attitudine alla forma breve – fa percepire il senso di precarietà e sovrastante sgomento imposti dalla guerra. E non stupisca – sembra suggerire l’autore – se per sopravvivere all’orrore vengano in soccorso la poesia, il sorriso, fantasiosi e sbilenchi sguardi sulla realtà che è di tutt’altri e cupi colori vestita.
***
Saada aveva molte bambole. Tutte all’uncinetto. Non le aveva fatte per venderle, ma per tenerle con sé. Perché Saada era sola. Nessuno l’aveva mai sentita parlare. E se provavi a rivolgerle la parola, lei non rispondeva. Piuttosto, abbassava la testa e con dita nervose faceva una bambola all’uncinetto e poi te la porgeva.
Quanto a noi, che ogni mattina andavamo a fare una passeggiata in riva al mare, non sapevamo dove prendesse i fili, né come mettesse da parte i soldi per comprarli, né se lavorasse. Quello che non sapevamo era che Saada, per via del suo amore per l’uncinetto, aveva il potere di tirare fuori un filo da qualsiasi cosa. Se voleva un filo verde, tendeva la mano alla pianta più vicina e tirava fuori un filo gommoso verde. E se voleva un filo bianco, poteva prenderlo dalla più vicina nuvola di passaggio. Se invece le servivano fili scintillanti, allora aspettava la notte, e i fili scendevano verso di lei dalle stelle. Nessuno avrebbe mai immaginato che Saada si procurasse i fili in quel modo.
La sua casa era piena di lavori all’uncinetto. Animali e persone. Tutti senza occhi. Probabilmente perché, quando Saada era piccola, suo fratello aveva perso la vista. Non che fosse diventato cieco tutto in una volta. Era successo a poco a poco. E poi, a dire il vero, non era diventato cieco, aveva solo perso la capacità di vedere i colori. Se glielo avessimo chiesto, ci avrebbe risposto così. Ma nessuno sapeva con certezza perché i giocattoli di Saada fossero senza occhi.
La verità era che il fratello non accettava l’idea di perdere la vista. E all’inizio era così frustrato e irritabile che aveva rotto i giocattoli di sua sorella, dicendole: «Tanto non ti servono più, devi venire con me al palazzo degli oggetti smarriti». Saada pensava che tutte le cose che le persone perdono, anche il coraggio e i colori, si accumulino sulla superficie della luna, nel lato buio, e che per tale ragione suo fratello, da quando aveva perso la vista, guardava in alto. Ma quando lui le aveva parlato del palazzo, aveva capito di essersi sbagliata. E così si era messa a preparare tutto il necessario, vestiti, libri, cibo, per accompagnarlo di buon mattino al palazzo degli oggetti smarriti a recuperare i suoi colori. «Non dire a nessuno che andiamo domani mattina. Nemmeno a mamma e papà. Se qualcuno lo scopre, non potrò riprendermi i miei colori». Saada annuì e giurò di non rivelare il loro segreto ad anima viva. Quella notte andò a dormire prima del solito. Ma suo fratello non la portò in nessun palazzo, anzi, dopo aver camminato a lungo, entrarono in una casa di pietra, remota e semidistrutta, in mezzo a un vasto terreno incolto e con un grande e antico carrubo di fronte. La casa di pietra era così vecchia che i denti di leone ne avevano ricoperto le pareti interne.
Suo fratello non sapeva che Saada era convinta di essere la causa della sua cecità. Un giorno aveva litigato con la figlia del bidello della scuola. Saada era stata così crudele con lei che la ragazza non era riuscita a trovare altro modo per difendersi se non dire: «Spero che tuo fratello diventi cieco oggi stesso». Quelle parole avevano turbato Saada, che si era ritirata immediatamente, sentendosi molto in imbarazzo. Forse perché la ragazza era stata sincera, o perché quello che aveva detto rivelava un forte senso di ingiustizia. Saada, quindi, era l’aggressore. Era successo subito dopo la fine della lezione di disegno. L’insegnante aveva chiesto a ogni studente di disegnare ciò che voleva su un foglio bianco e decidere se colorarlo o lasciarlo in bianco e nero. Dopo aver consegnato i fogli, tutti avevano scoperto che Saada e la figlia del bidello avevano disegnato la stessa cosa, un grande fico che riempiva la pagina. Saada pensava che la bambina glielo avesse copiato. Non era la stagione di quel tipo di frutta. La sua compagna, invece, aveva sorriso dolcemente, dicendo che quello era segno che pensavano allo stesso modo e che sarebbero diventate amiche. Ma Saada l’aveva accusata di essere una ladra e una bugiarda, l’aveva fatta cadere a terra con uno spintone e, per ferirla ancora di più, le aveva accartocciato il disegno. In quel momento, le parole del professore di scienze le erano risuonate nella testa – «L’uomo può imparare qualsiasi cosa» – e pensò che forse la figlia del bidello avesse imparato a rubare le idee degli altri, anche se si trovava cinque posti più in là.
Quel giorno a suo fratello non era successo niente di male. E neppure il giorno dopo, né durante il fine settimana. Ma Saada era preoccupata. E per il suo compleanno aveva chiesto ai genitori che portassero suo fratello dall’oculista per un controllo. Nessuno aveva capito il motivo di quella sua richiesta. Saada versò molte lacrime, implorandoli, e alla fine sua madre acconsentì. La clinica era piuttosto spoglia, e si trovava in fondo al paese. Quando la famiglia era arrivata, c’erano più di dieci bambini in attesa del proprio turno. I loro occhi secernevano un liquido viscoso. E tutti avvertivano un bruciore alle pupille. Tra loro c’erano anche la figlia del bidello e suo fratello, che sembrava malato, e lei lo stringeva a sé, cosa che aveva fatto preoccupare Saada. Possibile che si somigliassero così tanto? Sarebbe successo qualcosa di brutto a suo fratello, come al fratello della sua compagna? Saada aveva sentito dire che gli occhi di alcuni bambini erano stati danneggiati durante gli ultimi scontri, quando i miliziani avevano provato delle nuove munizioni. In quel momento non aveva badato a nulla di tutto ciò. Ma adesso c’erano due uomini armati davanti all’ingresso della clinica, e indossavano entrambi occhiali da sole neri, berretto e maglietta a maniche corte. Uno di loro in tono perentorio chiese a Saada, sua madre e suo fratello di aspettare.
Il dottore si mise a ridere e disse che suo fratello ci vedeva alla perfezione. Gli aveva mostrato un’immagine scura con uccellini, frutti e un cavaliere mascherato, e lui era riuscito a distinguere tutti i colori. Passarono settimane e mesi senza che gli accadesse nulla di brutto finché un giorno, mentre stavano tornando con la madre da scuola, lei allungò la mano per prendere lo zaino del figlio. La cartella, infatti, era sempre piena di libri e lui era così magro... Ma il ragazzino fece un passo indietro, inciampò nella base di un palo di metallo tronco e cadde. Probabilmente batté la testa. Ma si rialzò come se niente fosse, a parte il fatto che si sentiva un po’ assonnato. Quando arrivarono a casa, dormì fino al mattino successivo. Da quel momento perse la capacità di vedere i colori, uno dopo l’altro.
Non erano soltanto Saada e sua madre a credere, ciascuna per conto suo, di essere la causa della cecità del ragazzino. Anche il padre si sentiva in colpa. Saada, però, non sapeva perché suo padre affermasse una cosa del genere. Aveva capito che c’era di mezzo qualcosa che aveva fatto fuori casa e di cui si era pentito. E aveva sentito sua madre dirgli che lo amava ma che non poteva perdonarlo.
Saada non si preoccupava molto dei litigi dei suoi genitori. Si diceva che, se non fosse stato per il disegno del fico, non sarebbe successo quel che era successo. E credeva che fosse tutta colpa sua. Chiedeva a suo fratello di descriverle il mondo della cecità, che prendeva forma in un batter d’occhio e svaniva altrettanto velocemente. Ah, se avesse potuto vedere quello che vedeva suo fratello, anche solo per un momento! Magari avrebbe potuto strofinarsi gli occhi con l’acido o con quel detersivo che stava sotto il lavandino, o semplicemente guardare per un minuto il sole, l’aveva visto fare in un film. Tuttavia, aveva paura di entrare in un altro mondo, un mondo lontano e completamente diverso da quello di suo fratello, e temeva che si sarebbero persi per sempre.
Questo in ogni caso non avrebbe fatto alcuna differenza. Con il passare dei giorni, infatti, suo fratello badava sempre meno alla sua presenza. A prescindere da qualunque cosa Saada dicesse, lui continuava a parlottare senza mai smettere di sorridere, e muoveva la testa come se due mani lo stessero tenendo e lo facessero voltare in tutte le direzioni per mostrargli qualcosa di bello qui o là. Poi scoppiava a ridere. Sì, di sicuro suo fratello parlava con qualcuno nel mondo della cecità. Si frequentavano e facevano cose divertenti. Forse è così che succede quando entri in quell’universo. Diventi felice, felice e poi sarcastico fino all’amarezza. Questo era ciò che succedeva a suo fratello quando tornava dal mondo della cecità. Era di pessimo umore e non tollerava nessuno.
[da Come un giorno di sole in panchina di Mazen Maarouf, trad. di Barbara Teresi, Sellerio, 2024]
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