È, ad oggi, la biografia più completa su Angelo Claudio Tolomei – umanista, filologo, poeta, ecclesiastico, diplomatico – nato ad Asciano (Siena) nel 1492 circa, morto a Roma il 23 marzo 1556 all’età di 64 anni. Il libro è un’edizione pubblicata nel 1939 dall’Accademia degli Intronati di Siena, che all’epoca (dal 1937 al 1941) aveva assunto il nome di Accademia per le Arti e per le Lettere. L’autore del volume è Luigi Sbaragli (1888-1950), un erudito sacerdote originario di San Marcello Pistoiese, appartenente alla comunità degli Scolopi, che a Siena ebbero a svolgere una significativa attività in àmbito culturale ed educativo con l’Istituto per Sordomuti fondato da Tommaso Pendola. Il libro poté vantare una lettera-prefazione di Guido Mazzoni (1859-1943). Dotto e raffinato docente di letteratura italiana, presidente dell’Accademia della Crusca, senatore del Regno, scrittore in proprio, già allievo di D’Ancona e Carducci.
Luigi Sbaragli nel suo libro non tralascia nulla della biografia e bibliografia di Claudio Tolomei, così da restituire – magari con qualche cedimento agiografico – la personalità di colui che giustamente è da definire un’umanista. Non solo studioso della lingua italiana e della riforma ortografica, ma anche critico letterario, poeta, diplomatico, ecclesiastico, organizzatore culturale. Per quegli strani sedimenti della storia (in tal caso i sentimenti del rancore) Claudio Tolomei non è molto ricordato a Siena. A causa delle sue posizioni filo-medicee per le quali nel 1526 fu esiliato. Accadde dopo la battaglia di Camollia allorché Claudio fu visto fiancheggiare le truppe di Clemente VII. Si dovette giungere agli ultimi e tormentati anni della Repubblica senese per revocare l’esilio all’illustre cittadino e nominarlo addirittura ambasciatore (1551) presso il re di Francia Enrico II, affinché Sua Altezza incrementasse il proprio impegno militare per cacciare gli Spagnoli da Siena. Quanto alle vicende politico-militari della Repubblica di Siena, la storia è nota. A poco servirono le regali promesse, le suppliche, le ambascerie e le ambasce di Claudio Tolomei.
Per tornare alle vicende biografiche del Tolomei, il primo approdo dopo l’esilio (1526) fu Roma, accolto sotto la protezione del cardinale Ippolito de’ Medici. Nella Roma papale trovò subito come e con chi condividere i suoi interessi culturali. E’ qui che si manifestò anche il suo carisma di organizzatore. Dai ritrovi a casa Tolomei e per iniziativa di Claudio nacque nel 1542 l’Accademia della Virtù, presieduta da Marcello Cervini, grande appassionato di alchimia e architettura e futuro papa con il nome di Marcello II. Il sodalizio vide il sostegno di una notevole schiera di intellettuali e artisti del Rinascimento italiano. Tra questi il Vignola, Bernardino Maffei, Guillaume Philandrier detto il Filandro, Alessandro Manzuoli, Luca Contile, Annibal Caro, Marc’Antonio Flaminio, Francesco Maria Molza.
Venne detta anche Accademia Vitruviana, poiché tema principale di studio e di dibattito fu la «questione vitruviana», cioè come arte e architettura rinascimentale dovessero riappropriarsi dell’eredità greco-romana attraverso la rilettura e l’attualizzazione del trattato latino De Architectura di Marco Vetruvio Pollone, attivo nella seconda metà del I secolo a.C. e considerato il più famoso teorico dell’architettura di tutti i tempi. Ancora dal sodalizio di questi eruditi avrebbe preso vita l’Accademia della Poesia Nuova, dove ci si esercitava a comporre versi secondo le regole dettate dal Tolomei con la nuova metrica quantitativa, quella tipica della poesia classica. Figuriamoci, poi, se in tale fervore d’umanesimo poteva mancare il sogno di una città ideale. Vi provvide lo stesso Claudio tratteggiando il progetto (1544-47) di una grande città sul Monte Argentario, che non doveva essere solo bella, ma, per la sua posizione, concepita come una fortezza a protezione di tutta la Toscana che le stava alle spalle. Il progetto non vide realizzazione, anche se, lungo il tempo, l’idea del Tolomei fu ripresa in considerazione, se non altro nei suoi aspetti di difesa militare. Nel 1813 da Elisa Baciocchi, sorella di Napoleone. Nel 1885 dal governo italiano. Con il parere dello storico dell’arte Gaetano Milanesi, che si era andato a rileggere gli scritti del Tolomei e del Cataneo, si accantonò definitivamente il suggestivo progetto, poiché «coi progressi che ha fatto oggi l’arte dell’oppugnare e del difendere le fortezze, mediante tanti nuovi e più terribili trovati di guerra, conosciamo che altri dovranno essere i provvedimenti».
Nel 1535 il Tolomei era ormai divenuto un’autorevole figura della Corte romana. Papa Paolo III – Alessandro Farnese, raffinato umanista e sfarzoso mecenate – lo aveva posto a servizio del figlio Pier Luigi. E quando l’ambizioso figliolo divenne duca di Parma e Piacenza (1545) vide bene di portarsi al seguito Claudio Tolomei nominandolo alla presidenza del Supremo Consiglio di Giustizia. Interessante, in proposito, risulta il suo trattato su La libertà di scritto e di parola, in cui viene affrontata la questione «se i principi debbono castigare aspramente quegli uomini che dicono o scrivono male di loro, o pur sia meglio per loro il sopportarli». L’analisi tolomeiana è assai arguta. Prende innanzitutto atto che la parola, a differenza del coltello, non uccide subito ma può farlo sulla lunga distanza, al pari di «un veleno, che partorisce, col tempo, tristissimi effetti». E, dunque, quando si ravvisi offesa e infamia, è giusto che l’artefice venga punito, a prescindere da chi sia la vittima, cittadino comune o principe. Tuttavia il giurista – e in tal caso anche fine psicologo – sostiene che gli uomini di potere sono spesso poco lungimiranti e poco furbi. Innanzitutto perché obnubilati dalle lusinghe degli adulatori perdono il senso della realtà. Poi perché non capiscono che se qualcuno sfoga con le parole rabbia e rivalsa, sarà più facile che non commetta azioni ben più gravi. Infine non rendendosi conto di come temere le parole costituisca null’altro che un’ammissione di debolezza.
Se scienza e coscienza del Tolomei facevano crescere stima nei suoi confronti, lui, però, non si sentiva per niente soddisfatto. La legge gli sottraeva tempo e risorse intellettuali ai prediletti interessi letterari e soprattutto non gli sembrava che i suoi servigi avessero avuto fino ad allora un riconoscimento morale e pecuniario pari alla loro qualità. Esternò questo cruccio a diverse persone.
Dopo tanto penare qualcosa di consolatorio giunse. Nel settembre del 1549 Paolo III lo nomina vescovo di Curzola, isola della Dalmazia. Nella cerchia di amici ed estimatori la notizia fu quanto mai gradita, ritenuta una sorta di giusto risarcimento. Pietro Aretino, che del Tolomei aveva un vero culto, non poté fare a meno di ironizzare su tale tardivo riconoscimento, fino a dire che la generosità di Claudio nell’accettare la nomina era decisamente superiore a quella del papa che l’aveva concessa («il vescovado deve compiacersi più di voi vescovo, che voi vescovo non vi compiacete di lui vescovado»). Ovviamente il monsignore non metterà mai piede nella diocesi croata, dove in sua vece invierà un vicario.
Come già detto, merito delle pagine dello Sbaragli è l’avere ricostruito l’intera vicenda esistenziale e intellettuale di Claudio Tolomei, solitamente affidata a svelte note biografiche che lo ricordano prevalentemente per i suoi scritti dedicati alla lingua italiana. È comunque indiscutibile che proprio questi scritti hanno fatto sì che il fecondo poligrafo entrasse a pieno titolo nella storia della linguistica e della letteratura. Tutt’oggi il nostro italiano applica regole di ortografia e fonetica dettate dal Tolomei, quali, ad esempio, quelle indicate nel Trattato del raddoppiamento da parola a parola. Tra le opere in materia, di notevole importanza risulta Il Polito (1525) laddove in forma di dialogo vengono confutate le riforme ortografiche proposte da Gian Giorgio Trissino. Quindi Il Cesano de la lingua toscana (stampato dal Giolito nel 1555 senza il consenso dell’autore, che lo aveva composto circa trent’anni prima). Qui a sostenere la discussione è, giustappunto, Gabriele Maria Cesano, che deve fronteggiare, tutti insieme, Pietro Bembo, lo stesso Trissino, Baldassarre Castiglione, Alessandro de’ Pazzi. Costoro sostengono che volendo dare una definizione alla lingua italiana, debba chiamarsi ‘volgare’, ‘fiorentina’, ‘cortigiana’ o ‘italiana’. Il Cesano (alter ego del Tolomei) bada invece a dimostrare la ‘toscanità’ della lingua italiana. Tesi che portava anche al superamento delle mai dome diatribe su quali maggiori ascendenze – ‘fiorentine’ o ‘senesi’ – avesse il nostro parlare. Nessuno – ribadisce il Tolomei – ha da ostentare su altri il privilegio di quella lingua, se non la Toscana intera.
Appassionate e perspicaci sono inoltre le argomentazioni del Cesano-Tolomei che mirano a far capire come le lingue si formino attraverso la mobilità delle persone, gli scambi sociali, l’ascolto e il riadattamento di suoni e parole ‘straniere’. Un sommarsi di appropriazioni che magari non intaccano la struttura e la grammatica di una lingua, ma la arricchiscono, la rinnovano. Quasi fosse una «nave, la quale per lunghezza di tempo ha tutte le tavole sue, hor una hor’altra rinnovate, non si stima esser diversa et altra nave della prima, non sì facendo una subbita et aperta trasmutazione, ma in tal guisa a poco a poco, che ella a gran fatica si conosce». Può, però, accadere – sostiene ancora il Tolomei – che in alcuni casi una lingua, pur mantenendo preesistenti vocaboli, modifichi completamente la grammatica, il proprio costrutto, il modo di esprimere pensieri. Così è accaduto per il toscano che ha «certi suoi proprii tesori, che tutto lo fanno di se stesso padrone, né lo lasciano tanto soggetto stare a comandi de la latina lingua quanto altri crede».
Dal desiderio di mostrare la maturità letteraria del volgare nacquero i Versi et regole de la nuova poesia toscana (1539), scritto in collaborazione con altri letterati a lui vicini e dove, con alcuni esempi di versificazione, vengono esposti i precetti per l’applicazione della metrica latina (quantitativa) a quella italiana. Ciò che poi il Carducci avrebbe tentato con le Odi barbare e che un secolo prima del Tolomei avevano in parte sperimentato Leon Battista Alberti e Leonardo Dati. Oltre agli scritti che il Tolomei dedica specificatamente a ortografia e grammatica, costituiscono interessante esemplificazione dei suoi dettami anche le Orazioni e l’enorme corpus delle Lettere che, nel corso del tempo, hanno visto diverse edizioni a stampa.
Altre notizie e considerazioni verrebbe da riportare sul poliedrico personaggio, ma non avrebbe senso surrogare ulteriormente Luigi Sbaragli che – con la scrupolosità del ricercatore, la passione dello storico, la finezza dell’erudito, l’empatia del biografo – ha bene ricostruito di Claudio Tolomei vita e opere. Qui, dunque, è giusto fermarsi. Fatti edotti di quel gustoso calembour con cui Claudio termina una lettera all’amico Giovanni Maria Benedetti: «Vi scrissi, e non fu scrivere, perché vi scrissi senza aver che scrivervi, né senza materia da scrivere si può veramente scrivere: e chi vi scrive senza sostanza di scrivere, scrivendo non scrive. State sano, e se pur volete che io vi scriva, scrivete».
* L'intervento è stato presentato alla Biblioteca degli Intronati di Siena sabato 17 dicembre 2016 in occasione della presentazione del volume "Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento", ristampa anastatica resa possibile grazie alla Pro Loco di Asciano.
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