Cinquant’anni fa l’alluvione di Firenze

Luigi Oliveto

04/11/2016

La prima notizia dell’Ansa battuta alle 03:48 di venerdì 4 novembre 1966 – un venerdì – diceva: “La situazione in Toscana diventa sempre più grave. La pioggia non accenna a cessare e i corsi d’acqua, specialmente i più piccoli, sono notevolmente ingrossati. In provincia di Firenze, è emergenza a Incisa Valdarno e negli altri centri in prossimità dell’Arno, nel quale confluiscono altri torrenti. Le acque hanno invaso molte abitazioni”. Da lì a poche ore Firenze è travolta dal suo fiume. Gli orefici di Ponte Vecchio accorrono a salvare la merce, cede la spalletta di piazza Cavalleggeri, l’Arno si riversa per le strade di Santa Croce, irrompe nei locali della Biblioteca Nazionale, alle Murate gli abitanti della zona si adoperano per mettere in salvo i carcerati. Da Palazzo Vecchio il sindaco Piero Bargellini e il prefetto sollecitano aiuti al Ministero, ma a Roma non si è ancora compresa la gravità della situazione.
 
Celebre l’aneddoto del caporedattore della sede Rai fiorentina, Marcello Giannini, che per dare il più realisticamente possibile la notizia (e soprattutto l’entità di quanto stava accadendo) calò dalla finestra un microfono mentre la sua voce commentava: “Ecco, non so se da Roma sentite questo rumore. Quello che state sentendo non è un fiume, ma è via Cerretani, è la via Panzani, è il centro storico di Firenze invaso dalle acque”. Nelle parti più basse della città, l’acqua raggiunge i quattro metri d’altezza. Ovunque fango, detriti, suppellettili trascinate dalla corrente, nafta fuoriuscita dagli impianti di riscaldamento.
 
A Firenze persero la vita 17 persone, 18 nel territorio della provincia. Quasi tutti anziani, alcuni di loro paralizzati; una donna quarantacinquenne che abitava in Santa Croce fu colta da infarto e morì perché impossibile trovare l’ossigeno per la respirazione artificiale; un giovane carcerato di 25 anni venne travolto dalla piena mentre tentava di salvarsi insieme agli altri detenuti. Fin da subito, però, a prevalere fu la percezione della tragedia che aveva colpito il patrimonio artistico. La porta del Battistero sfondata dalla esondazione, le formelle del Ghiberti divelte, libri rari e manoscritti della Biblioteca Nazionale scompaginati da acqua e melma, i depositi degli Uffizi anch’essi alluvionati. Il Crocifisso di Cimabue conservato in Santa Croce e oltraggiato da quella furia divenne ben presto il simbolo della profanazione perpetrata contro arte e bellezza. Il poeta Mario Luzi avrebbe composto i dolenti versi di “Prega, dice, per la città sommersa”, confidando nella speranza che “Non c’è morte che non sia anche nascita. / Soltanto per questo pregherò / le dico sciaguattando ferito nella melma / mentre il suo lume lampeggia e si eclissa in un vicolo. / E la continuità manda un riflesso / duro, ambiguo, visibile alla talpa e alla lince”.
 
La reazione del mondo, soprattutto di quello rappresentato dai giovani, fu sorprendente. Giunsero così “gli angeli del fango”. La definizione venne coniata da Giovanni Grazzini, giornalista fiorentino, che all’epoca lavorava al Corriere della Sera. Il 10 novembre pubblicò un articolo intitolato “Si calano nel buio della melma”, scrivendo che dinanzi alla generosità di quei ragazzi “non sarà più permesso a nessuno fare dei sarcasmi sui giovani beats”. Perché – annotava il giornalista – “questa stessa gioventù oggi ha dato un esempio meraviglioso, spinta dalla gioia di mostrarsi utile, di prestare la propria forza e il proprio entusiasmo per la salvezza di un bene comune”. Dunque “onore ai beats, onore agli angeli del fango”.
 
In effetti il dramma dell’alluvione di Firenze andò a iscriversi, a proprio modo, sul diario del cambiamento che nel mondo stava per compiersi. Già da qualche anno soffiava il vento della “nuova frontiera” kennedyana, lo spirito di rinnovamento profuso dal Concilio di Giovanni XXIII, il toccante “I have a dream” di Martin Luther King nel ribadire l’ovvia (?) verità che “tutti gli uomini sono stati creati uguali”. Portava lo stesso afflato di nuovo e di universalità anche “la meglio gioventù” giunta in soccorso di Firenze per riparare la bellezza violata, il sublime offeso. Tutto era parte di un con/fuso sentimento di fratellanza, di un ‘possibile’ mondo nuovo arpeggiato sugli accordi di “Blowin in the wind”. Una diffusa solidarietà attraversò veramente il mondo. Si ricorda l’accorato appello di Edward Kennedy, di Richard Burton, i soccorsi della Croce Rossa tedesca, delle forze armate americane di stanza in Italia, gli aiuti provenienti dal freddo d’oltrecortina di Russia, Cecoslovacchia, Ungheria; ma, non di meno, i bagnini e i gommoni provenienti dalla Versilia, materiali e persone tempestivamente inviati dai comuni della Toscana.
 
Tutto ciò accadde ai primi di novembre di cinquant’anni fa. Quasi in una beffarda profezia, da mesi un gruppo musicale chiamato The Rokes andava cantando “è la pioggia che va e ritorna il sereno”. Su una cosa avevano comunque ragione: che le nubi di quella pioggia erano metafora di un mondo in via di cambiamento. Eccome se è cambiato.
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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