Con nobili argomenti, i figli di Gabriel García Márquez hanno deciso che “Ci vediamo in agosto”, romanzo lasciato inedito dal padre, venisse pubblicato. Così il 6 marzo 2024, giorno del compleanno dello scrittore, il libro è arrivato nelle librerie di tutto il mondo (in Italia edito da Mondadori con l’ottima traduzione di Bruno Arpaia). Marquez, pur negli alterni, poi irreversibili, offuscamenti provocati dall’Alzheimer, era stato chiaro: “Questo libro non funziona. Bisogna distruggerlo”. Non fu distrutto e, a distanza di dieci anni – dicono i figli, supportati dal parere e dalla curatela dell’amico Cristóbal Pera – quelle pagine, per quanto imperfette, testimoniano ancora inventiva, poesia, tenera attenzione verso i sentimenti umani (uno su tutti l’amore) di cui il romanziere colombiano ha pervaso le sue storie. “Ci vediamo in agosto” non potrà dunque dirsi un capolavoro, ma ne ricorda con commozione altri; per come evochi atmosfere, sguardi sulle cose, figure femminili scaturite dalla penna del grande Gabo. Protagonista assoluta è Ana Magdalena Bach, quarantaseienne, “capelli indios lunghi fino alle spalle”, stupendi “occhi di topazio”, madre di due figli già grandi, da ventisette anni “unita in un affiatato matrimonio con un uomo che amava e che l’amava, e con il quale si era sposata senza finire la facoltà di Arti e Lettere, ancora vergine e senza fidanzamenti precedenti”. Il 16 agosto di ogni anno, Ana lascia per un giorno e una notte la famiglia. Deve adempiere a un impegno: andare a deporre gladioli sulla tomba di sua madre sepolta nel modesto cimitero di un’isola caraibica. Quattro ore di traghetto, solito hotel, stessi pasti, qualche sorso di gin, un libro da leggere. Ma per Ana Magdalena l’annuale rito agostano diverrà inaspettatamente (ma chissà da quanto tempo aspettata) un’esperienza di consapevolezza di sé, del suo essere donna, un’altra donna. Ogni anno, infatti, quella trasferta significherà un amore, un uomo sempre diverso con cui trascorrere la notte, “la sua notte”. Trepidante rivelazione di quanto il proprio corpo, ancorché maturo, avesse ancora di inespresso. E dunque occasione di nuove attese, trepidazioni, desiderio, perfino umiliazioni. Tutto, però, liberamente. Al punto che quei 16 agosto segneranno per lei il crescendo di una presa di coscienza, tale da rimettere in discussione la propria vita, gli affetti, ciò che si sottendeva certo. Diverse e sempre intriganti sono le donne raccontate da García Márquez – tornano in mente Sierva María de los Angeles, Cándida Eréndira, Ángela Vicario, Remedios La Bella, Delgadina, Fermina Daza – ma mai, come attraverso la figura di Ana Magdalena, l’autore assume un’ottica così tanto femminile. A fare poi il romanzo – al netto delle piccole sfasature di un’opera negata alla compiutezza – è comunque il soffio carezzevole di una scrittura che bene conosciamo, una affatto dismessa sapienza narrativa, quell’attitudine a osservare la realtà estraendone emozioni, voluttà, magia.
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Tornò sull’isola il venerdì sedici agosto con il traghetto delle tre del pomeriggio. Indossava un paio di jeans, una camicia scozzese a quadri, scarpe semplici con il tacco basso e senza calze, un parasole di raso, la borsa e, come unico bagaglio, una sacca da spiaggia. Alla fila dei taxi del molo andò dritta verso un vecchio modello róso dalla salsedine. L’autista la accolse con un saluto da amico e la portò a sobbalzi attraverso il paese indigente, con case di legno, canne e fango, tetti di palma amara e strade di arena ardente di fronte a un mare in fiamme. Dovette fare le capriole per evitare i maiali impavidi e i bambini nudi che lo schivavano con mosse da torero. Alla fine del paese imboccò un viale di palme reali dove c’erano le spiagge e gli alberghi per i turisti, tra il mare aperto e una laguna interna piena di aironi azzurri. Finalmente si fermò davanti all’hotel più vecchio e scalcinato.
Il concierge la attendeva con la scheda di registrazione pronta da firmare e le chiavi dell’unica camera al primo piano che dava sulla laguna. Salì le scale in quattro balzi ed entrò nella povera stanza che odorava di insetticida recente e quasi del tutto occupata dal letto matrimoniale. Tirò fuori dalla sacca un nécessaire di capretto, un libro intonso con una pagina marcata dal tagliacarte d’avorio che mise sul comodino, e una camiciola da notte di seta rosa che infilò sotto al cuscino. Prese anche un foulard di seta stampata con uccelli equatoriali, una camicia bianca a maniche corte e un paio di scarpe da tennis molto usate, e li portò in bagno.
Prima di sistemarsi si tolse la fede matrimoniale e l’orologio da uomo che teneva al braccio destro, li mise sulla mensola della toilette e si sciacquò rapidamente la faccia per lavare via la polvere del viaggio e scacciare il sonno della siesta. Quando finì di asciugarsi soppesò allo specchio i seni tondi e altezzosi nonostante i suoi due parti. Si stirò le guance all’indietro con il taglio delle mani per ricordarsi di come era stata da giovane. Ignorò le rughe del collo, che ormai non avevano rimedio, e si controllò i denti perfetti e da poco lavati dopo il pranzo sul traghetto. Si sfregò con il deodorante le ascelle ben rasate e indossò la camicia di cotone fresco con le iniziali AMB ricamate sul taschino. Si spazzolò i capelli indios, lunghi fino alle spalle, e li legò in una coda di cavallo che strinse con il foulard con gli uccelli. Si ammorbidì le labbra con un rossetto neutro, si inumidì gli indici sulla lingua per lisciare le sopracciglia ribelli, si diede una spruzzata di Maderas de Oriente dietro le orecchie, e finalmente affrontò lo specchio con il suo volto di madre autunnale. La pelle senza traccia di cosmetici aveva il colore e la grana della melassa, e gli occhi di topazio erano stupendi con le loro scure palpebre portoghesi. Si triturò a fondo, si giudicò senza pietà, e si trovò quasi bella come si sentiva. Soltanto quando si mise l’anello e l’orologio si rese conto del suo ritardo: mancavano sei minuti alle quattro, però si concesse un istante di nostalgia per osservare gli aironi che planavano immobili nel sopore ardente della laguna.
Il taxi la aspettava sotto i banani del portale. Partì senza attendere ordini lungo il viale delle palme fino a uno slargo tra gli hotel dove c’era il mercato popolare all’aria aperta, e si fermò a una bancarella di fiori. Una grande donna nera che dormicchiava su una sedia da spiaggia si svegliò spaventata dal clacson, riconobbe la figura sul sedile posteriore dell’auto e tra risate e chiacchiere le diede il mazzo di gladioli che aveva ordinato per lei. Qualche isolato più avanti il taxi svoltò per una stradina appena transitabile che saliva su una cornice di sassi appuntiti. Attraverso l’aria cristallizzata dal caldo si vedevano l’aperto mar dei Caraibi, gli yacht da diporto allineati nella darsena turistica, il traghetto delle quattro che tornava in città. Sulla cima della collina c’era il cimitero più povero. Spinse senza sforzo il cancello arrugginito ed entrò con il mazzo di fiori nel sentiero di tumuli soffocati dalle erbacce. Al centro c’era una ceiba dai grandi rami che la orientò per identificare la tomba della madre. Le pietre appuntite facevano male anche attraverso le suole di gomma surriscaldata e il sole aspro penetrava nel raso del parasole. Un’iguana spuntò dai cespugli, si fermò di colpo davanti a lei, la guardò un istante e scappò di corsa.
S’infilò un guanto da giardino che portava in borsa, e dovette pulire tre lapidi prima di riconoscere quella di marmo giallastro con il nome della madre e la data della sua morte, otto anni prima.
Aveva ripetuto quel viaggio ogni sedici agosto alla stessa ora, con lo stesso taxi e la stessa fioraia, sotto il sole di fuoco dello stesso cimitero indigente, per depositare un mazzo di gladioli freschi sulla tomba di sua madre. A partire da quel momento non aveva nulla da fare fino alle nove del mattino del giorno dopo, quando sarebbe partito il primo traghetto di ritorno.
Si chiamava Ana Magdalena Bach, aveva compiuto quarantasei anni e da ventisette era unita in un affiatato matrimonio con un uomo che amava e che l’amava, e con il quale si era sposata senza finire la facoltà di Arti e Lettere, ancora vergine e senza fidanzamenti precedenti. Sua madre era stata una celebre maestra elementare montessoriana che, nonostante i meriti, non aveva voluto essere null’altro fino all’ultimo respiro. Ana Magdalena aveva ereditato da lei lo splendore degli occhi dorati, la virtù delle poche parole e l’intelligenza per gestire la tempra del suo carattere. Era una famiglia di musicisti. Il padre era stato maestro di piano e direttore del Conservatorio Provinciale per quarant’anni. Il marito, anche lui figlio di musicisti e direttore d’orchestra, aveva sostituito il suo maestro. Avevano un figlio esemplare che era diventato primo violoncello dell’Orchestra Sinfonica Nazionale a ventidue anni ed era stato applaudito da Mstislav Leopol’dovič Rostropovič in una sessione privata. Invece la figlia di diciott’anni aveva una facilità quasi geniale per imparare a orecchio qualunque strumento, ma le piaceva suonarli soltanto come pretesto per non dormire a casa. Frequentava in allegria un eccellente trombettista jazz, ma voleva prendere i voti nell’ordine delle carmelitane scalze contro il parere dei genitori.
La volontà di essere seppellita sull’isola l’aveva espressa sua madre tre giorni prima di morire. Ana Magdalena sarebbe voluta andare al funerale, ma a nessuno sembrò prudente, poiché lei stessa non credeva di poter sopravvivere all’angoscia. Il padre la portò sull’isola in occasione del primo anniversario per posare la lapide di marmo che dovevano alla tomba. La spaventò la traversata su una canoa con il motore fuoribordo che impiegò quasi quattro ore senza un istante di mare calmo. Ammirò le spiagge di farina dorata proprio ai bordi della foresta vergine, il baccano degli uccelli e il volo spettrale degli aironi nella gora della laguna interna. La depresse la miseria del villaggio, dove furono costretti a dormire all’addiaccio su amache appese tra due alberi di cocco, malgrado lì fossero nati un poeta e un senatore magniloquente che era stato sul punto di diventare presidente della Repubblica. La impressionò la quantità di pescatori neri con un braccio mutilato per l’esplosione prematura dei candelotti di dinamite. Però, più di tutto, comprese la volontà della madre quando vide lo splendore del mondo dalla cima del camposanto. Era l’unico luogo solitario dove non poteva sentirsi sola. Fu allora che Ana Magdalena Bach si impose l’obbiettivo di lasciarla lì dov’era e di portare ogni anno un mazzo di gladioli sulla sua tomba.
Agosto era il mese del caldo e degli acquazzoni folli, ma lei la intese come una delle tante penitenze che doveva compiere immancabilmente e sempre per conto suo. L’unica debolezza la ebbe di fronte all’insistenza dei suoi figli per conoscere la tomba della nonna, e la natura gliela fece pagare con una traversata spaventosa. La lancia salpò nonostante la pioggia per evitare che facesse buio durante il tragitto e i bambini arrivarono terrorizzati e vinti dal mal di mare. Quella volta, per fortuna, poterono dormire nel primo albergo per turisti che il senatore aveva costruito a nome suo con i soldi dello stato.
Ana Magdalena Bach aveva visto crescere anno dopo anno le scogliere di vetro che aumentavano mentre il paese si impoveriva. Le lance a motore vennero mandate in pensione dal traghetto. La traversata continuava a essere di quattro ore, però con aria condizionata, orchestra e ragazze di piacere. Soltanto lei mantenne la routine come la visitatrice più puntuale del paese.
Tornò in albergo, si stese sul letto con indosso soltanto le mutandine di pizzo e riprese la lettura del libro dalla pagina marcata con il tagliacarte, sotto le pale del ventilatore che a stento smuovevano il calore. Il libro era Dracula, di Bram Stoker. Ne aveva letto metà sul traghetto con il fervore di un capolavoro. Si addormentò con il libro sul petto e si svegliò due ore dopo nelle tenebre, fradicia di sudore e morta di fame.
Il bar dell’albergo era aperto fino alle dieci ed era scesa a mangiare una cosa qualunque prima di dormire. Notò che c’erano più clienti del solito a quell’ora, e il cameriere non le parve lo stesso di prima. Ordinò, per non sbagliare, lo stesso sandwich al prosciutto e formaggio degli altri anni, con pane tostato e caffellatte. Mentre glielo portavano si rese conto di essere circondata dagli stessi turisti anziani di quando l’hotel era l’unico. Una ragazzina mulatta cantava boleri tristi e Agustín Romero in persona, ormai vecchio e cieco, la accompagnava con amore allo stesso piano decrepito della festa di inaugurazione.
Lei terminò in fretta, cercando di superare l’umiliazione di mangiare da sola, ...
[da Ci vediamo in agosto di Gabriel García Márquez, trad. di Bruno Arpaia, Mondadori, 2024]
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