“Chimere”, romanzo di J. Bernlef, fu pubblicato la prima volta in Olanda nel 1984. Tra i titoli del prolifico scrittore olandese – è autore di una novantina di opere, tra romanzi, raccolte di racconti e poesie – è quello più noto. Pubblicato in diciotto lingue, non era stato ancora tradotto in italiano. Ha meritoriamente provveduto Fazi Editore con la traduzione di Stefano Musilli. A distanza di quarant’anni dalla sua prima uscita, il romanzo, anche adattato per il cinema, continua ad essere letto e apprezzato. È risultato il quarto libro in lingua nederlandese più amato di tutti i tempi. Racconta dei coniugi Maarten e Vera, settantenni olandesi emigrati da anni negli Stati Uniti. Vivono in una cittadina sulla costa a nord di Boston. Hanno due figli, Kitty e Fred, che abitano nei Paesi Bassi e che vedono raramente. La vita di Maarten e Vera è serenamente monotona, scandita dall’orologio di una quotidianità sempre uguale: piccole abitudini, un mondo i cui confini raggiungono, al massimo, le case dei vicini, il pub, la spiaggia dove poter sguinzagliare il cane Robert. In qualsiasi momento della giornata, ciascuno dei due sa perfettamente cosa sta facendo l’altro; e ciò costituisce una rassicurazione, perfino un sentimento di tenerezza, poiché basta a significare che l’altro c’è, esiste. La tranquillità di questa esistenza inizia ad avere i primi turbamenti quando Maarten – è lui la voce narrante – avverte una “sensazione di momentanea assenza in piena coscienza, un senso di smarrimento, di spaesamento”. In breve e sempre di più, in un crescente offuscarsi della realtà, accade che scorda cose, confonde giorni, ore, situazioni, luoghi. Dimentica o sovrammette volti, ricordi. A niente servirà sfogliare l’album delle foto di famiglia che la moglie prova a fare insieme a lui. Nella sua testa, tutto va dissolvendosi. Come accade in queste situazioni, il dramma maggiore lo vive chi sta accanto al malato. Sarà dunque Vera, nel pieno dello sconforto, a dire: “La gente della nostra età vive dei propri ricordi. Persi i ricordi, non rimane nulla”. Chissà se nella mente di Maarten talvolta, anche per un solo istante, si riaccende il lampo di un innamoramento che aveva resistito agli anni e che gli faceva pensare di sua moglie: “Eppure l’immagine che ho di lei – dentro di me, voglio dire – non somiglia alla giovane donna della foto, né alla Vera che ho di fronte. È un’immagine in cui tutti i cambiamenti che ha attraversato sono riuniti. Perciò in effetti è più un sentimento che un’immagine”. È una ordinaria storia d’amore e di dolore quella che J. Bernlef racconta con misura e perizia narrativa. Non meraviglia che dopo quarant’anni continui a trovare persone disposte a leggerla, condividerne i sentimenti.
***
Forse è per via della neve che la mattina mi sento già così stanco. Vera no, lei ama la neve. Trova che non ci sia niente di meglio di un paesaggio innevato. Quando le tracce dell’uomo scompaiono dalla natura, quando tutto si trasforma in una distesa bianca e immacolata: che meraviglia! Lo dice quasi in estasi. Ma qui non è una circostanza che duri molto. Già dopo qualche ora si vedono impronte di scarpe e di pneumatici ovunque e le strade principali vengono sgombrate dagli spazzaneve.
La sento in cucina mentre prepara il caffè. Il palo giallo ocra alla fermata dello scuolabus è l’unico indizio rimasto della presenza di Field Road, che corre davanti a casa nostra. Oggi non capisco nemmeno dove siano finiti i bambini. La mattina mi metto sempre qui alla finestra. Prima controllo la temperatura e poi aspetto che spuntino tra i tronchi degli alberi alle prime luci della giornata invernale. Arrivano da ogni parte con gli zaini in spalla, i berretti e le sciarpe variopinte e le loro stridule vocine americane. Tutti quei colori mi mettono allegria. Rosso fiammante, blu cobalto. C’è un ragazzino che ha un giubbetto giallo zafferano con un pavone ricamato sulla schiena, zoppica un po’ e sale arrancando sullo scuolabus sempre per ultimo. È Richard, il figlio di Tom, il custode del faro, nato con la gamba sinistra troppo corta. Una coda di pavone celeste, spalancata, piena di occhi scuri che fissano. Non capisco dove siano finiti, oggi.
La casa scricchiola sulle travi come una vecchia barca a vela. Fuori il vento scuote le cime dei pini piegati, per il resto spogli. E, a intervalli fissi, il lamento breve e sordo della foghorn – voglio dire, della sirena da nebbia – accanto al faro sull’ultimo sperone roccioso di Eastern Point. A intervalli fissi. Ci si potrebbe regolare l’orologio.
Meno tre, segna il termometro esterno, il termometro Heidensieck di papà, un tubicino di vetro in un astuccio di legno verde muschio avvitato all’infisso. A sinistra Celsius, a destra Fahrenheit. Papà e il suo Heidensieck. Alle previsioni del tempo non ci credeva, ma nell’annotare i fatti sì. Non a caso è stato cancelliere di tribunale praticamente per tutta la vita. Temperature mattutine e serali, appuntate su un quaderno nero marmorizzato. La prima e l’ultima cosa che faceva ogni giorno. Una specie di rito. Nel fine settimana prendeva il quaderno ed elaborava i suoi grafici alla scrivania sulla base delle temperature registrate. Quei grafici, tratteggiati con una matita Faber dura su carta millimetrata rosa salmone, li riponeva poi in una cartellina. Ma perché si dava tanta pena? Me ne ha parlato solo una volta, poco prima di morire, nella sua casetta vicino alle dune nell’entroterra di Domburg. Mi resta poco tempo, mi disse, e il sistema è troppo grande, lento e complicato per una persona sola. Io registro fatti puri e semplici. Ma sospetti che dietro a quei fatti ci sia un sistema, dissi io. Già, mi rispose, verrebbe da pensarlo. O tutti i fatti dovrebbero essere anomalie, aggiunse con quel suo sorrisetto ironico. Ma allora non sarebbe più un sistema, suggerii. O sarebbe un sistema che noi non riusciamo a concepire, ribatté lui.
Strano che tutt’a un tratto, qui a Gloucester, sulla costa a nord di Boston, mi ritrovi a pensare a certe cose: a papà e al suo termometro Heidensieck. In Olanda a quest’ora avranno rimosso anche la sua tomba.
[...]
Vera la si sente sempre arrivare da lontano, tanto è forte il tintinnio della coppia di tazze e piattini sul vassoio di latta. Fogliolina di pioppo, le dico a volte scherzando, ma lei non lo trova molto divertente. Secondo il dottor Eardly dipende da una vertebra cervicale malconcia. C’è poco da fare. Niente, in realtà. Vecchiaia.
«Ma dove sono finiti i ragazzi?».
«I ragazzi? In Olanda, dove vuoi che siano?».
«No, intendo i ragazzini di qui». Indico fuori. «I figli dei Cheever e dei Robbins, e Richard di Tom».
«Ma Maarten, è domenica. Dai, ti si raffredda il tè».
Come ho fatto a dimenticarmene? E il tè? Avrei giurato che fosse mattina. Ora, però, guardando attraverso l’altra finestra in direzione del mare, capisco che deve essere più tardi. Dietro la foschia grigia si nasconde un sole pallido. Sarà stata la nebbia a confondermi. La nebbia trattiene la luce. Prima di sedermi do un rapido sguardo all’orologio sulla parete. Le tre passate.
Sorrido agli occhi verdi e beffardi di Vera con le macchioline scure nelle pupille. L’altro giorno mi sono imbattuto in una sua vecchia foto. È sul ponte di un traghetto per turisti, con la schiena poggiata alla doppia ringhiera bianca. Una gita a Harderwijk. Il sole le splende sui capelli castani ribelli. All’epoca erano folti. Ride, scoprendo i denti piccoli e regolari. Che vestito avesse ora non lo ricordo, ma comunque era chiaro. Ci vedo ancora insieme sul ponte di poppa mentre ci allontaniamo dal porto di Amsterdam. Eravamo già sposati? Eppure l’immagine che ho di lei – dentro di me, voglio dire – non somiglia alla giovane donna della foto, né alla Vera che ho di fronte. È un’immagine in cui tutti i cambiamenti che ha attraversato sono riuniti. Perciò in effetti è più un sentimento che un’immagine.
Vera. I suoi gesti ancora veloci, che s’interrompono bruscamente; la concentrazione con cui tende le dita affusolate e stacca una foglia morta da una pianta per poi esaminarla da ogni prospettiva, come se volesse accertare la causa del decesso; il modo in cui arriccia le labbra mentre riflette o scuote delicatamente la testa quando legge qualcosa che le piace. Sono l’unico a poter vedere in lei tutte le donne che è stata. Allora a volte la tocco, e per un attimo le accarezzo tutte insieme. È un sentimento. Un sentimento che solo lei può suscitare in me: nessun altro.
Giro il cucchiaino nella tazza, come fa lei. Un tintinnio familiare di metallo contro porcellana sottile.
«Tutto a posto?», domanda. Mi scruta.
«Sì», rispondo. «Perché?».
«Stamattina hai fatto raffreddare il caffè. E ti ho chiesto due volte di andare a prendere la legna dal casotto, ma l’unico a tornare con un ciocco in bocca è stato Robert».
Ride. Ha ancora i denti piccoli. Questi, però, non sono veri. Chiama il capanno «casotto» perché è originaria del¬l’Olanda settentrionale, di Alkmaar, proprio come me. Ma io lo chiamo semplicemente «capanno».
«Stamattina ero un po’ fiacco», le dico. «Te la prendo tra un attimo».
«Non serve, ci ho già pensato io. Cominci a essere un po’ distratto, Maarten».
«Non ho mai avuto una gran memoria».
[da Chimere di J. Bernlef, trad. di Stefano Musilli, Fazi, 2024]
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