Nelle pagine di Stefania Auci (“I leoni di Sicilia”, Edizioni Nord) c’è profumo di Sicilia e di spezie venute da terre lontane, cannella, coriandolo, anice, zafferano pepe, cumino. Con il commercio delle spezie, infatti, alla fine del Settecento, aveva avuto inizio la saga dei Florio, sbarcati a Palermo da Bagnara Calabra e divenuti in breve una potenza economica, allorché dagli aromi esotici si erano allargati al commercio dello zolfo, alla proprietà di palazzi e terreni, fino a creare una compagnia di navigazione. E, ancora, da una generazione all’altra, produttori di pregiato Marsala, ideatori delle scatolette di tonno sott’olio che dalla Tonnara di Favignana partivano alla volta dell’intera Europa. Come leggiamo nel romanzo della Auci, la svolta della famiglia Florio inizia con una scossa di terremoto, quando il 16 ottobre 1799 le case di Bagnara Calabra tremano paurosamente. E’ notte. I Florio fuggono in strada, spaventati ma fortunatamente salvi: Paolo con la moglie Giuseppina e il piccolo Vincenzo appena nato, il fratello Ignazio con la nipotina Vittoria, orfana dell’altro fratello Francesco. La casa che ha tremato, la paura, il pericolo scampato sembrano diventare il definitivo argomento per far prendere a Paolo la decisione che da tempo andava maturando. Trasferirsi a Palermo e ampliare il commercio di spezie che, da Bagnara verso la Sicilia, già era stato avviato insieme al cognato Paolo Barbaro. “Cu nesci, arrinesci”; chi esce, riesce. A Paolo Florio, mai era suonato così convincente come ora il detto popolare. Dunque era arrivato il momento di uscire, guardare in grande (“Voglio di più, Ignà. Questo paese non mi basta più. Questa vita non mi basta più. Voglio andare a Palermo.”) Una determinazione che si rivelerà vincente, a giudicare da quale impero economico i Florio sarebbero riusciti a creare, non senza l’invidia dei palermitani secondo cui quei calabresi restavano comunque e sempre ‘stranieri’, ‘facchini’ dal sangue che ‘puzza di sudore’. La saga familiare ripercorsa da Stefania Auci – trapanese di nascita, palermitana d’adozione – è anche un efficace affresco d’epoca, di spaccati sociali e politici (i Borbone, i moti del 1818, lo sbarco di Garibaldi) e, non di meno, una variegata galleria di personaggi còlti nelle loro sicurezze, fragilità, sentimenti più o meno espressi. Tra costoro alcune figure femminili di gran carattere, come Giuseppina, la moglie di Paolo, che, anche a prezzo di rinunce, si fa pernio della famiglia; o l’esuberante Giulia, che per Vincenzo diventa imprescindibile riferimento. Con una narrazione priva di cedimenti, si snoda così una storia che nel suo intreccio di vicende, affari, amori, tradimenti prende il lettore da cima a fondo. E anche oltre, tant’è che l’autrice ha già annunciato un secondo libro sui Florio per raccontarci la loro fine-fine.
***
Il mare è vischioso, ha il colore dell’inchiostro, si confonde con la notte. Ignazio salta giù dal carretto non appena arrivano al porto.
Davanti a lui, la baia spazzata dal vento, racchiusa da una massicciata di scogli e sabbia, protetta dalla mole aguzza delle montagne e di capo Marturano.
Intorno alle barche, uomini gridano, controllano il carico, stringono corde.
Sembra mezzogiorno, tanto è il fermento.
«Andiamo.» Barbaro si dirige verso la torre di Re Ruggero, dove il mare è profondo. Lì sono ormeggiate le imbarcazioni più grandi.
Arrivano davanti a una barca dalla chiglia piatta. È il San Francesco di Paola, lo schifazzo che è dei Florio e di Barbaro. L’albero maestro oscilla al ritmo delle onde, il bompresso si tende verso il mare. Le vele sono piegate, il sartiame è in ordine.
Una lama di luce si fa largo nel boccaporto. Barbaro si protende in avanti, ascolta i cigolii con un’espressione che oscilla tra il sorpreso e l’indispettito. «Cognato, sei tu?»
La testa di Paolo Florio compare dal boccaporto. «Chi doveva essere?»
«E che ne so? Con quello che è successo stanotte...»
Ma Paolo Florio non lo ascolta più. Ora guarda Ignazio. «E tu, poi! Non mi hai fatto sapere più niente. Hai preso e sei sparito. Ora sali, muoviti.» Poi scompare nel ventre della barca e anche il fratello salta a bordo. Il cognato resta sul ponte per controllare la murata di sinistra che ha sbattuto contro il molo.
Ignazio s’incunea nella stiva, tra cassette e sacchi di tela che dalla Calabria arriveranno fino a Palermo.
È questo il loro lavoro: il commercio, soprattutto per mare. Pochi mesi prima c’erano stati grandi sconvolgimenti nel Regno di Napoli: il re era stato cacciato e i rivoltosi avevano fondato la Repubblica Napoletana. Era stato un gruppo di nobili e di intellettuali a diffondere idee di democrazia e libertà, proprio com’era avvenuto in Francia, durante la rivoluzione che aveva visto cadere le teste di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Ferdinando e Maria Carolina, però, erano stati più accorti e se ne erano scappati in tempo, aiutati da quella parte dell’esercito rimasta fedele agli inglesi, storici nemici della Francia, prima che i lazzari, i popolani, li travolgessero con il loro furore.
Ma lì, tra i monti calabresi, era arrivata solo l’ultima onda di quella rivoluzione. Si erano verificati omicidi, i soldati non sapevano più a chi obbedire e i briganti che da sempre infestavano le montagne avevano iniziato a depredare anche i commercianti sulla costa. Tra briganti e rivoluzionari, le strade erano pericolose e, anche se il mare non aveva né chiese né taverne, di certo offriva più sicurezza delle vie del regno dei Borbone.
L’interno della piccola stiva è soffocante. Cedri in ceste di vimini, richiesti dai profumieri; pesce, soprattutto pesce stocco e aringhe salate. Più in fondo, pezze di cuoio, pronte per esser portate a Messina.
Paolo ispeziona i sacchi di merce. Nella stiva si diffonde l’odore del pesce salato insieme con quello lievemente acido del cuoio.
Le spezie, però, non sono nella stiva. Quelle le tengono in casa fino alla partenza. L’umidità e il salmastro del mare potrebbero danneggiarle, e vanno conservate con riguardo. Hanno nomi esotici che acquistano sapore sulla lingua ed evocano immagini di sole e calore: pepe, citrino, chiodi di garofano, tormentilla, cannella. Sono la vera ricchezza.
Ignazio, d’un tratto, capisce che Paolo è nervoso. Lo vede dai gesti, lo avverte nelle parole, soffocate dallo sciabordio contro il fasciame. «Cosa c’è?» gli chiede. Teme che abbia litigato con Giuseppina. Sua cognata è tutt’altro che remissiva come dovrebbe essere una moglie. Per lo meno, una moglie adatta a Paolo. Ma non è questo ciò che lo turba, lo sente. «Che c’è?» ripete.
«Voglio andarmene da Bagnara.»
La frase cade nel fugace momento di pausa tra un’onda e l’altra.
Ignazio spera di non aver capito. Ma sa che altre volte Paolo ha espresso questo desiderio. «Dove?» chiede, più accorato che sorpreso. Ha paura. Una paura improvvisa, antica, una bestia che ha il fiato acido dell’abbandono.
Mattia e Paolo lo hanno sempre sorretto. Ora Mattia ha una famiglia sua e Paolo vuol andar via. Lasciarlo solo.
Suo fratello abbassa la voce. È quasi un sussurro. «In realtà ci sto pensando da tempo. La scossa di stanotte mi ha convinto che è la cosa giusta. Non voglio che Vincenzo cresca qui, con il rischio di vedersi cadere addosso la casa. E poi...» Lo guarda. «Voglio di più, Igna’. Questo paese non mi basta più. Questa vita non mi basta più. Voglio andare a Palermo.»
Ignazio apre la bocca per rispondere, la richiude. È disorientato, sente le parole diventare cenere.
Ma certo, Palermo è una scelta ovvia: Barbaro e Florio, come li chiamano a Bagnara, hanno una putìa, un negozio di spezie, laggiù.
Ricorda, Ignazio. Tutto era iniziato circa due anni prima con un magazzino, un piccolo fondaco dove stivare le merci che acquistavano lungo la costa per rivenderle nell’isola. All’inizio, era stata una necessità; subito dopo, però, suo fratello Paolo aveva intuito che poteva trasformarsi in un’occasione favorevole per loro: potevano aumentare le vendite su Palermo che, in quel momento, era uno dei maggiori porti del Mediterraneo. Così quel magazzino si era trasformato in un emporio. Oltretutto, a Palermo, c’è una grossa comunità di bagnaroti, riflette Ignazio. È una piazza vivace, ricca, piena di opportunità, soprattutto dopo l’arrivo dei Borbone scappati per la rivoluzione.
Fa un cenno con la testa e indica il ponte sopra di lui, dove schioccano i passi del cognato.
No, Barbaro ancora non lo sa. Paolo gli fa cenno di tacere.
Per Ignazio, la solitudine è una stretta alla gola.
[Da I leoni di Sicilia di Stefania Auci, Editrice Nord, 2019]
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