Che razza di libro! Se hai la pelle nera vorresti essere invisibile

Luigi Oliveto

08/09/2022

“Che razza di libro!” di Jason Mott (traduzione di Valentina Daniele, NN Editore) è qualcosa di più che un romanzo sul razzismo.  Perché quanti soffrono la condizione della ‘nerezza’ non hanno solo problemi con il mondo esterno, ma pure con il proprio sottopelle, nello sforzo di far coincidere – o la tentazione di dissociare – la faccia e l’essere. Per raccontare un siffatto disagio, l’autore ricorre a una storia apparentemente bislacca. Uno scrittore americano (di colore) durante il tour promozionale del suo ultimo libro, si imbatte in un ragazzino nero che più nero non si può, il quale, dopo quel primo incontro, lo segue ovunque. O per lo meno così sembra allo scrittore di successo, affetto da una malattia che porta a confondere realtà e immaginazione (“la realtà è una cosa molto fluida nel mio mondo”). Il ragazzino, che i bulli avevano ribattezzato Nerofumo, ad ogni tappa del tour rivela allo scrittore qualcosa di sé. Come il fatto che i genitori gli abbiano insegnato a difendersi dalle crudeltà del mondo diventando invisibile. Un espediente per le sue paure e insicurezze: “La cosa che gli piaceva di più dell’essere non visto era non vedere la sua pelle. Era sfuggito alla sua carne scura. Era fuggito da Nerofumo e perciò, quando chiudeva gli occhi e pensava a se stesso, finalmente aveva la possibilità di vedere il ragazzino che viveva dietro i suoi occhi fin dall’inizio.” I vaneggiamenti dello scrittore (lui solo vede il Ragazzino) lo obbligano comunque a ripensare la propria esistenza; fin dalla giovinezza, quando avvertiva l’angoscia dei suoi genitori nel timore di non riuscire a proteggerlo in quanto nero figlio di neri: “Ecco cos’era la Paura, alla fine. Da cosa derivavano tutte le paure delle persone con la pelle di un certo colore che vivevano in un certo posto. Ma non era solo una paura, era una verità. Una verità dimostrata da generazioni.” Terribile dover constatare che “ci sono corpi che non sono di chi li abita […], “che non appartieni più a te stesso, ma alle mani, ai pugni, alle manette e ai proiettili di uno sconosciuto.” Comprensibile, allora, il desiderio di diventare invisibili, dismettere la propria pelle. Dunque nascondersi, mimetizzarsi, arrendersi? No, sembrerebbe suggerire Jason Mott con la sua storia (più che altro una presa di coscienza). Meglio adoperarsi per la ragionevole speranza di un’umanità di ‘visibili’ in cui ciascuno è sé stesso, con il colore della propria pelle e dell’anima che vi sta sotto.
 
***
 
Nell’angolo del piccolo soggiorno della piccola casa di campagna in fondo alla strada sterrata sotto il cielo azzurro della Carolina, il bambino di cinque anni dalla pelle scura se ne stava seduto, con le braccine scure strette attorno alle ginocchia, e cercava con tutte le forze di reprimere la risata nella gabbia pulsante del suo torace.
Sua madre, seduta sul divano con le mani scure in grembo e la fronte corrugata come i campi del signor Johnson a fine inverno, strinse le labbra e cincischiò con la stoffa lisa dell’abito grigio che indossava. Era un vestito che aveva comprato prima ancora che il bambino nascesse. Invecchiava insieme a lui. Anno dopo anno la fantasia a fiori azzurri sbiadiva, una sfumatura alla volta. I fili lungo l’orlo perdevano la presa sulle cose. Si rompevano e allungavano i loro colli ciondolanti in tutte le direzioni che potevano. E ora, dopo sette anni di duro lavoro, sembrava che l’abito non sarebbe riuscito a tenere insieme la stoffa ancora per molto.
«L’hai trovato?» chiese la madre del bambino quando suo marito entrò nella stanza.
«No» disse il padre del bambino. Era un uomo alto, con gli occhi grandi e un corpo lungo e dinoccolato che da piccolo gli aveva procurato il soprannome di “negro più magro del mondo”. Il nome gli era rimasto addosso negli anni, una frustata sulla schiena dall’infanzia all’età adulta, e non avendo mai trovato una cura per la sua magrezza quasi leggendaria, l’uomo aveva preso a indossare indumenti con le maniche lunghe ovunque andasse, perché il vuoto dentro le maniche lo faceva sembrare più grosso. O almeno, così credeva lui.
Aveva paura degli occhi degli altri da tutta la vita. Come poteva non volere che suo figlio imparasse il trucco impossibile dell’invisibilità?
«Non ti preoccupare» disse. «Lo troveremo presto. Sono sicuro che sta bene, ovunque sia. Sa badare a se stesso. Non avrà mai problemi». Si sedette accanto alla moglie sullo stanco divano marrone e strinse tra gli steli scheletrici delle sue dita le colombe irrequiete che erano le mani di lei. Se le portò alle labbra e le baciò. «È un bravo bambino» disse il padre. «Non ci lascerebbe mai. Lo troveremo».
«È il bambino più bravo del mondo» disse la madre.
«Forse è andato nel bosco a cercare le more. Scommetto che è andato proprio lì».
«Dici?».
Il padre ci pensò su per un momento. «Non ne sono sicuro ma ci spero, bambolina».
La madre del bambino ridacchiò a quel “bambolina” e si tamponò l’angolo dell’occhio. Stava piangendo?
Alla fine la risata che solleticava da tempo la gola del bambino, invisibile e nascosto a solo un passo di distanza, svanì alla vista delle lacrime di sua madre. Strinse ancora più forte le braccia intorno alle ginocchia.
Non avrebbe dovuto farlo. Non avrebbe dovuto farli preoccupare così. Erano bravi genitori e non sopportavano di stare così in ansia per lui. Una palla plumbea di rimorso gli si formò nello stomaco. Vibrava e batteva e risuonava in tutto il suo corpo. Doveva smetterla con quel trucco... ma come?
Cosa poteva fare? Era a nemmeno mezzo metro dai suoi genitori, ma il senso di colpa per le lacrime di sua madre gli tratteneva le mani che l’avrebbero voluta toccare per farle sapere che lui era lì. Pesava sulla lingua che avrebbe voluto cantare il suo nome e liberarla dalla paura.
Era impossibile, pensò il bambino di cinque anni, far capire ai suoi che era stato tutto uno scherzo. Non avrebbe mai potuto spiegare che l’aveva fatto solo per divertirsi. E anche per festeggiare! In fondo ce l’aveva fatta! Ormai erano tre anni che sua madre e suo padre cercavano di insegnargli come diventare invisibile, come diventare “il Non Visto”. Era così che il padre del bambino chiamava quel trucco. Diceva quelle parole con un tono fiabesco. Le diceva alzando le mani, muovendole dolcemente avanti e indietro come per suonare un qualche strumento magico. «Diventerai il Non Visto» diceva. E a volte aggiungeva alla fine un “Ooooo” da fantasma. «Sarai non visto e protetto per tutta la vita» diceva suo padre. «Te lo immagini?».
Erano le parole “non visto e protetto” che facevano sorridere suo padre. Era il sorriso preferito del bambino, era come vedere suo padre conquistare tutto ciò che voleva dalla vita.
Non visto e protetto.
Parole sacre.
 
[da Che razza di libro! di Jason Mott, trad. di Valentina Daniele, NN Editore, 2022]
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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