Che notte quella notte. Giosuè Calaciura racconta il primo Natale

Luigi Oliveto

01/12/2022

Si intitola “Una notte” l’ultimo romanzo di Giosuè Calaciura. Narra di una notte indubbiamente singolare, perché è quella del primo Natale, quando in un cantuccio di mondo e in condizioni di estrema precarietà nasce una creatura che farà molto parlare di sé. La madre è una ragazzina accompagnata ad un uomo molto più grande di lei. Una coppia di fatto. I due – come nelle rappresentazioni che se ne daranno nei secoli a seguire – mostrano in volto un rassegnato sconcerto nell’essersi trovati dentro a qualcosa di molto più grande di loro. Nascita annunciata e molto attesa, in ragione del fatto che scombussolerà diversi schemi, mentalità, certezze, gerarchie di poteri e valori ritenuti indiscutibili. Insomma, un vero sovvertimento sociale al tempo in cui – racconta Calaciura nel suo funambolesco romanzo – “molti nascevano malati, altri morivano giovani, di violenza e di affanni”. Ebbene, costoro erano stati avvertiti: “quella Nascita leggendaria li avrebbe guariti, spezzando il tempo degli umili e degli ultimi con la promessa inattendibile che è per loro il regno dei cieli”. La cosa avrebbe riguardato anche tutti gli altri, “ma i più sfortunati sarebbero entrati per primi, lasciando sulla terra il carico del loro dolore”. Giosuè Calaciura allestisce così un presepe sospeso tra leggenda, narrazione biblica, poesia, fantasticherie, divertiti quadretti. La scena si popola di tutta la varia umanità racchiusa in ogni presepe degno di tale nome. Dietro ciascun personaggio una storia. Prevalgono i perdenti e, dunque, la loro speranza di giustizia e liberazione. C’è grande animazione, ed anche caos, in quella notte: pastori, bottegai, soldati, prostitute, trafficoni, intere famiglie. Adulti e bambini assimilati da eguale stupore: “C’erano bambini che crollavano dal sonno e camminavano mormorandosi una ninna nanna. I genitori con i più piccoli in braccio tentavano di tenerli svegli raccontando storie fantastiche e impossibili di magia e di miracoli. Improvvisamente tacevano nella fulminante certezza che nessuna favola potesse avere gli stessi connotati d’eccitazione di quella Nascita. Persuasero i figli a restare svegli e a proseguire il cammino con la semplice verità di quel miracolo, dei loro gesti, della loro meta. Come se già tutto fosse compiuto. E raccontarono ai bambini che, in memoria del sacrificio di quella notte, non avrebbero mai più dormito”.L’affabulante prosa di Calaciura alterna continuamente sacralità a dissacrazione. A tratti rende il racconto mistificatorio, talora mitizzante, spesso consegnato all’ineffabile. E noi incantati ad ascoltarlo, a seguirlo fin dove la leggenda sconfina nella realtà. Allora, come i bambini narrati dall’autore, a fatica condotti per mano verso quella Nascita, vorremmo farci convinti che, alla meta, potessero essere miracolati tutti i nostri affanni. Tanto da tenerci ancora svegli di meraviglia nelle lunghe e incerte notti della nostra esistenza.
 
***
 
«Sta nascendo!» gridava un ragazzo all’ingresso del vicolo. Quella allegria rimbalzava urgente sui muri delle case. Prima che si perdesse tra le ombre della sera, un’altra voce, una donna, riprendeva l’annuncio: «Sta nascendo? E tu come lo sai?». «Ha le doglie» rispondeva il ragazzo che aveva fretta di correre di vicolo in vicolo per ripetere la buona novella.
Altre donne dalle finestre si interrogavano: «Avrà partorito?». Valutavano la lentezza persuasiva della notizia che dalla stalla, lontana nella campagna, si spingeva di voce in voce sino al cuore di Betlemme. E aggiunsero a spanne il tempo dello stupore e della meraviglia personale di ciascun messaggero che ritardava l’informazione collettiva.
Ma tutti ormai sapevano. Persino gli animali degli ovili e dei cortili che si agitavano affollandosi alle reti, quelli delle tane e delle grondaie, meno utili e per questo più spaventati, quelli volatili e quelli striscianti, gli animali liberi o alla catena, le prede e i predatori. Persino gli alberi e le erbe: una scossa di brivido scuoteva le fronde, e non soffiava il vento. Ogni creatura, anche le pietre, sembrava in attesa dell’evento, e i mattoni per l’eccitazione aprivano crepe sulle pareti per sfuggire alle malte. Avvertivano quanto fosse incontrollabile e necessaria quella novità.
La vecchia ingiustizia aveva fatto ruggine nell’aria appesantendo ogni respiro. Si trasmetteva come un contagio aereo. Molti nascevano malati, altri morivano giovani, di violenza e di affanni. Ma tutti, da tempo, erano stati avvertiti del clamore di quella Nascita leggendaria che li avrebbe guariti, spezzando il tempo degli umili e degli ultimi con la promessa inattendibile che è per loro il regno dei cieli. Anche per tutti gli altri. Ma i più sfortunati sarebbero entrati per primi, lasciando sulla terra il carico del loro dolore.
Indovini e veggenti pellegrini che da sempre attraversano Betlemme seguendo la mappa delle stelle si erano fatti più precisi e pressanti nella profezia della Nascita. Quella era la notte esatta per la sintonia simmetrica degli annunci: la stella cometa che segnava la strada; le eclissi di buon augurio; miracoli benigni e inaspettati della natura di solito impegnata a flagellare i più disgraziati; la convergenza simultanea verso questi luoghi di re e sapienti ma anche di vagabondi e ignoranti; la paura crescente dei potenti e dei prepotenti; lo scricchiolio delle travi dell’universo ormai udibile a orecchio. Bastava ascoltare.
Con largo anticipo avevano previsto il rifiuto di ogni alloggio per quella coppia di nazareni – sembravano i soliti profughi per fame e per guerra – così malamente assortita: lei bambina già partoriente, lui falegname così maturo da sembrare suo padre. Nessuno aveva offerto un letto e un riparo. Solo una serva, riconoscendosi nelle difficoltà, aveva indicato un rifugio per animali nel folto delle campagne, verso le colline. Alla fine della sua giornata di fatica avrebbe portato il sollievo del pane e stoffe pulite dove avvolgere il neonato.
Più avanti osti e albergatori avrebbero giustificato il loro rifiuto e gli altri a venire, opponendo la necessità del loro ruolo nella logica di quella sacra rappresentazione: se non avessero negato ogni assistenza, senza quella durezza e quell’indifferenza – ma era solo cattiveria di scena, assicuravano – la profezia non avrebbe avuto seguito né successo. Anzi, rivendicavano quella teatrale meschinità, necessaria proprio perché scomoda e di sicuro disprezzo. A piacimento poi, tutti avevano allargato quel vaticinio dalla natura così elastica ed ecumenica, affinché abbracciasse altre negligenze, giustificasse altre meschinità e vergogne passate e future che in nessun caso potevano essere messe in relazione con quel parto urgente annunciato per la notte: se non avessero fatto questo e quello, se non avessero negato, spergiurato, offeso, torturato e ucciso nessuna profezia della Nascita o della Morte si sarebbe compiuta.
 
[da Una notte di Giosuè Calaciura, Sellerio, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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