“Che cosa fa la gente tutto il giorno?”. È il titolo sotto cui sono raccolti dodici racconti di Peter Cameron pubblicati da Adelphi con la traduzione di Giuseppina Oneto. L’interrogativo – non poi così ovvio – si pone ogni qualvolta (dunque spesso) vorremmo non confonderci con la cosiddetta ‘gente’, fieri del nostro essere diversi dagli altri o tantomeno di ritenersi tali. Se però di quella domanda andiamo a indagare le risposte, scopriamo – un po’ delusi, ma per altri aspetti rassicurati – che tutti fanno le nostre stesse cose. Vivono come possono, cercano di essere legittimati dal mondo che li circonda, di amare e di essere amati, di far coincidere la loro esistenza con quanto desiderano, di fronteggiare ciò che va storto e duole. Questo fa la gente. Salvo qualche variabile, solitamente invisibile ai più. Ecco, i racconti di Cameron prendono in considerazione soprattutto le variabili con cui alcuni, forse non sempre per scelte deliberate, si ritrovano a svolte decisive della loro vita. È il caso bizzarro di un uomo che ogni notte esce di casa facendo credere alla moglie di avere un’amante, mentre le sue uscite notturne sono solo dovute al possesso di un cane che tiene nascosto in un ripostiglio e di cui la moglie non deve assolutamente conoscere l’esistenza. O della giovane irrequieta che cerca accoglienza, vicinanza umana, e la trova nel luogo più fasullo che possa esserci: un parco tematico per turisti. E ancora i casi di adolescenti nel difficile passaggio verso il mondo degli adulti. Oppure di donne in solitudine che, perse anche a sé stesse, vagano dentro stanze vuote e fredde. Ebbene (anche) questo fa la gente. Vive i propri paradossi, sentimenti, drammi, stravolgimenti. Lo racconta bene Peter Cameron con il flusso di quella sua scrittura tutta aderente alle cose, ai personaggi, a ciò che accade. Uno stile apprezzato anche dai ragazzi di oggi che con i loro tam tam su Tik-Tok hanno rilanciato il romanzo dello scrittore statunitense “Un giorno questo dolore ti sarà utile”, uscito nel 2007 (nel 2011 il film che ne ricavò Roberto Faenza) dove a farci partecipe della sua esistenza è un diciottenne d’indole complicata, riflessivo, desideroso di capire, tanto da sentirsi un ‘disadattato’. In quelle pagine sottostà un fondo di beffarda malinconia ugualmente presente nei racconti di Cameron che ora leggiamo curiosi di sapere cosa combini la gente di veramente diverso da noi. E prendere atto che la gente siamo noi.
***
È cominciato tutto all’aeroporto. Mia madre aveva promesso di venirmi a prendere e invece non c’era. Poi dalla compagnia aerea mi hanno comunicato di aver smarrito la mia valigia in qualche punto fra lo Zaire e New York e proprio quando avevo finito di compilare le tre pagine del modulo reclami sono comparsi mia sorella minore Daria e Charles, il suo ragazzo, dai quali ho saputo che la mamma era diventata attrice e aveva venduto casa, e io potevo stare da loro, per una decina di giorni, dopodiché dovevo trovarmi un altro posto oppure andare a Los Angeles a vivere con mio padre. Quindi si sono messi a litigare su come tornare a casa: lei voleva prendere un taxi ma lui pensava che sarebbe stato meglio un particolare autobus diretto. Si sono arrabbiati a tal punto che Daria è salita su un taxi e Charles sull’autobus, e prima che io potessi seguire l’una o l’altro se n’erano già andati. Ho incontrato un uomo d’affari argentino con il quale abbiamo diviso il taxi per andare a Manhattan; a metà strada lui ha chiesto all’autista di accostare e nel parcheggio di un centro commerciale del Queens lui e l’autista hanno tirato della coca che il tizio aveva appena fatto passare attraverso la dogana. È stato allora che sono cominciati a mancarmi i Peace Corps.
L’uomo d’affari con la coca in corpo è sceso al Waldorf-Astoria. Mi ha invitato a salire in camera sua, ma gli ho detto che, avendo contratto una malattia in Africa, mi avevano mandato a morire a casa. Ho dato all’autista l’indirizzo di Daria e ci siamo diretti downtown. Mi ha lasciato in una via stranissima. Era una strada acciottolata, senza auto parcheggiate e senza marciapiede. I portoncini non erano numerati e non avevano un aspetto normale, accogliente: erano porte d’acciaio, senza maniglia, di quelle che si aprono spingendo dall’interno. Stavo per chiamare un altro taxi – per andare dove, non lo so – quando una di quelle porte si è aperta e ne sono usciti Daria e Charles.
Si erano cambiati. Vestiti per un posto elegante, era chiaro. Daria, vedendomi in mezzo alla strada, ha detto: «Uh, Laine, grande, ti abbiamo lasciato un messaggio in segreteria per dirti di raggiungerci da Minnie, ma a questo punto vieni con noi. Da sola forse non lo avresti mai trovato».
«Chi è Minnie?» ho chiesto io.
«Chi è Minnie?» ha fatto Charles scoppiando a ridere. «Sarai anche stata in Africa ma, insomma, Elaine: chi è Minnie?».
«È un ristorante» ha detto Daria. «Charles, va’ a cercare un taxi».
Lui, con l’aria un po’ bastonata, ha abbassato gli occhi sulle scarpe – degli stivali di vernice da cowboy – ed è arrivato fino all’angolo.
Daria, prima di parlare, ha aspettato che non ci sentisse. «Mi dispiace per l’aeroporto,» ha detto «penserai che mi sono comportata in un modo orribile, ma questa è una relazione nuova e secondo me è importante farsi valere sin dall’inizio, se no è senza scampo, diventa una roba da handicappati...».
«Prima di andare, pensi che possa fare un salto in bagno? E non dovrei magari cambiarmi?».
Daria, che intanto osservava Charles ritornare sui suoi passi, mi ha guardato. «Be’, in effetti sembri uno straccio». Ha sospirato. «Saliamo al volo e vediamo cosa possiamo fare».
Da Minnie, seduto a un tavolo sopra a un piccolo rialzo, abbiamo trovato Charles che beveva champagne. I tavoli erano quasi tutti rialzati, per cui attraversare il ristorante dava il mal di mare: era un continuo salire e scendere qualche gradino.
«Uh, lo champagne» ha squittito Daria versandoselo. «Che bella idea». Ha dato un bacio a Charles che ha sorriso alzando il bicchiere.
«Salute» ha detto. «Alla nuova professione». Si è girato verso di me. «Bentornata, Elaine».
Anche se non avevo né lo champagne né un nuovo lavoro, ho pensato che era veramente carino da parte sua, perciò mi sono limitata a sorridere e a sollevare il mio bicchiere d’acqua.
«Charles, che coglione, versale un po’ di champagne!» ha detto Daria dandogli una botta sul braccio ancora alzato, facendo così rovesciare qualche goccia del liquido color pesca.
«Uh, scusami». Lui ha preso la bottiglia dal secchiello e mentre sgocciolava ancora mi ha riempito il bicchiere.
«Non vuoi sapere qual è la mia nuova professione?» mi ha chiesto Daria.
«Ecco, pensavo...».
«No, no, indovina». E rivolta a Charles: «Scommetto che non ci arriva».
Finito il college, Daria era andata a lavorare da Bloomingdale come assistente agli acquisti. L’ultima cosa che avevo sentito era che si occupava degli accessori da uomo: ombrelli, portafogli e occhiali da sole.
«Sei ancora da Bloomingdale?» le ho chiesto.
«Santo cielo, no, ma scherziamo?».
«Guardala» ha detto Charles. «Ce l’ha scritto in faccia cosa fa».
L’ho guardata. Aveva le guance arrossate e ho notato che le sopracciglia erano folte e scure, innaturali. Le aveva tinte?
«L’attrice?».
«Fuochino» ha risposto lei. «La modella. Ho già fatto due sfilate, una era per un designer».
«Di biancheria» ha detto Charles.
«Non era biancheria,» ha ribattuto Daria «era tipo biancheria».
«Sei alta abbastanza per fare la modella?» ho chiesto io.
«Non proprio, ma sta quasi tutto nel portamento, nel modo in cui ti muovi. Io mi muovo molto bene. Loro ne sono estasiati».
«Alla mamma l’hai detto?».
«È stata una sua idea. Quel tale che le fa da agente lavora anche con le modelle e lei gli ha mostrato una mia foto, abbiamo cenato insieme e lui mi ha trovato quelle sfilate. La prima è stata un po’ una schifezza – non mi hanno ancora pagato – ma la seconda era super a posto. Ho preso cinquecento dollari e c’era un buffet enorme, caviale, di tutto».
[da Che cosa fa la gente tutto il giorno? di Peter Cameron, trad. di Giuseppina Oneto, Adelphi, 2023]
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