Caffè Voltaire, precariato e politica in una commedia generazionale

Luigi Oliveto

11/06/2020

“Caffè Voltaire” (Mondadori), ultimo romanzo di Laura Campiglio, è una spassosa commedia (con retrogusto amaro) sul nostro tempo; che – come avverte l’autrice nelle prime righe – è un tempo decisamente diverso dal passato: “Si favoleggia ci sia stato un tempo in cui perdere il lavoro potesse rappresentare in qualche modo una notizia. Adesso è il contrario: perderlo è perfino banale, a fare scalpore se mai è la remota eventualità di trovarne uno”. Ne sa qualcosa Anna Naldini, la protagonista del romanzo (giornalista trentacinquenne in fase di bilancio della propria vita) che proprio il giorno del suo compleanno perde la principale delle otto collaborazioni che la vedono affannarsi per mettere insieme uno stipendietto. A darle il benservito è “La Locomotiva”, testata di sinistra (inequivocabile il richiamo gucciniano). Seduta a un tavolino del Caffè Voltaire (ne è una habitué) Anna cerca di tenere botta, prima con una sbronza, poi rimettendosi in gioco. Una proposta di lavoro giunge dal giornale “I Probi Viri”, schieratissimo a destra e impegnato nella campagna elettorale che sta per avviarsi dopo la repentina caduta del governo. Lei accetta, se non che pure “La Locomotiva” la richiama a collaborare. Non dice no a nessuno dei due e inizia a scrivere per entrambi. Anna inizia così un doppio gioco, che è anche quel gioco delle parti dove, alternativamente, si può dire una cosa e il suo contrario. Del resto siamo nell’epoca della post-verità. Adotta due pseudonimi, Voltaire e Rousseau (giusto in ricordo di una canzoncina francese che le cantava il nonno) e vai con il repertorio più vieto del confronto politico, tiri bassi, fake news. L’ambiguità, così, può diventare un modo d’essere. Peraltro, “niente al mondo è meglio dell’anonimato”. Anna concorda con il medico americano Maxwell Maltz: “il motore dell’evoluzione non è l’intelligenza ma la capacità di adattamento”. Tanto che “ventun giorni sarebbero sufficienti per abituarsi a qualunque condizione umana, anche la più drammatica: tre settimane e un lutto improvviso, una calamità naturale o addirittura una guerra diventano, pur nel dolore, lo status quo”. Dice la protagonista: “a me ne sono bastate un paio per abituarmi alla doppiezza sistematica: scrivere ogni giorno una cosa e il suo contrario è diventata quasi una seconda natura.” Eh sì. La storia raccontata da Laura Campiglio con scrittura svelta e divertita è un efficace spaccato del nostro presente, la testimonianza disincantata di una generazione. Fa sorridere, ma anche no.
 
***
 
Da bambina volevo fare il presidente della Repubblica, ma era una soluzione di ripiego. Mi avevano spiegato che no, il Papa proprio non si poteva, e così, sfumato il Vaticano, mi sarei accontentata del Quirinale.
Diventare adulti, in fondo, è stilare il bilancio tra velleità infantili e risultati ottenuti. Volevi fare la rockstar e fai la rockstar: bene. Volevi fare l’astronauta e fai, che so, l’assicuratore o l’impiegato al catasto: un po’ meno bene. In mezzo, infinite gradazioni di compromesso con l’idea di fallimento. Ora, se da piccola ambivi alla presidenza della Repubblica e da grande ti arrabatti tra collaborazioni e lavoretti precari, non è andata proprio alla grande, questo lo so. Solo che certi giorni brucia più di altri. Oggi, per esempio.
Si favoleggia ci sia stato un tempo in cui perdere il lavoro potesse rappresentare in qualche modo una notizia. Adesso è il contrario: perderlo è perfino banale, a fare scalpore se mai è la remota eventualità di trovarne uno. Soprattutto se hai la fortuna sfacciata di appartenere alla generazione perduta dei trenta-quaranta e di vivere in un Paese che quanto a disoccupazione giovanile è trionfalmente sul podio europeo, al terzo posto dopo Grecia e Spagna. Sui numeri sono abbastanza ferrata, avendo da poco scritto un pezzo sui trentenni senza lavoro per il giornale che mi ha appena lasciata a casa: il 38 per cento dei giovani che cerca un impiego non lo trova, meno della metà dei laureati riesce ad avere un’occupazione entro l’anno e si calcola che quelli della mia generazione cambieranno almeno dodici lavori nel corso della loro vita. Quanto all’ultimo dato, posso considerarmi a buon punto: non per essere autoreferenziale ma, modestia a parte, fino a oggi pomeriggio di collaborazioni a progetto potevo vantarne ben otto. Da stasera, sette. Non male per una a cui nessuna banca del globo terraqueo concederebbe mai un mutuo, rifletto infilandomi nel parcheggio a spina di pesce di un autogrill. Spengo il motore e mi metto comoda: sedile tirato indietro, autoradio accesa, sigarette a portata di mano. Qui sono e qui resto. A tempo indeterminato, come il contratto che non avrò mai.
Una volta, narra sempre la leggenda, il precariato era roba da neolaureati. Col passare degli anni i lavoretti si sfoltivano come il pelo lanuginoso dei cuccioli lasciando emergere la corazza sbozzata del primo lavoro vero: se a venticinque anni era normale fare un po’ questo e un po’ quello, a trentacinque era altrettanto normale che alla domanda “Che lavoro fai?” – una domanda onesta, poi riformulata in quel “Di cosa ti occupi” che è di fatto un invito alla supercazzola – si potesse rispondere, se non con una, con un massimo di tre parole. Ma il precariato, si è visto subito, aveva grandi potenzialità, oltre che una certa tignosa tendenza al radicamento. E infatti sono bastati il nome astratto di “flessibilità” e lo strumento concreto dei contratti atipici per trasformarlo da fase transitoria a condizione strutturale, morbo cronico, malapianta inestirpabile: in questi tempi illuminati non solo crescere, ma perfino invecchiare significa sostanzialmente accumulare lavoretti e collaborazioni.
Non per dedurre dal generale della sociologia il particolare dei fatti miei, ma le mie otto (sette, sette: mi devo abituare) collaborazioni, sempre modestia a parte, spaziano da “La Voce dell’Altomilanese”, il quotidiano locale per cui ho iniziato a scrivere a vent’anni, alla rivista di viaggi a cui piazzo reportage su Parigi scritti a memoria dal mio tinello, dalla casa editrice per cui separo i manoscritti scritti male da quelli scritti peggio al centro benessere per cui mi sono improvvisata copy (ancorché al mio “Il miglior modo di perdere tempo” sia stato preferito un tautologico “Perché il tuo corpo sei tu”), per poi passare alla casa di produzione cinematografica per cui scrivo frusti dialoghi da commedia brillante e approdare alla scuola di lingue dove, spacciandomi per madrelingua, discetto in francese sull’ultima mise di Brigitte Macron, senza dimenticare l’agenzia per cui traduco sempre dal francese documenti commerciali che per me, anche a lavoro finito, rimangono aramaico.
E poi be’, poi c’è (c’era) la collaborazione, quella cercata e trovata quando mi sono piccata di arricchire il mio mai abbastanza barocco curriculum con un fronzolo di particolare pregio: “La Locomotiva”. Il quotidiano nazionale di sinistra per antonomasia, trasudante cultura e nobiltà di principi con l’unica pecca di un certo snobismo intellettuale, pur opportunamente dissimulato grazie a quell’aria noncurante e trasandata, quella studiatissima eppur disinvolta sprezzatura (un air très blasé, direi ai miei studenti di francese) che il giornale da sempre tiene a darsi. Il quotidiano che mette d’accordo il sindacalista ingrugnito e la signora della sinistra elitaria (gauche caviar, segnatevelo ragazzi che radical chic ormai è orribilmente inflazionato), la voglia di rivoluzione e quella di bohème. Il quotidiano che mi ha appena lasciata a casa, appunto.
[…]
«Secondo studi recenti, tra le 19 e le 19.30 il tono dell’umore segna il picco negativo: è per questo che l’uomo ha inventato l’aperitivo» sta gracchiando, incongruamente allegra, l’autoradio, mentre cita le ricerche di un’oscura università del North Carolina o dell’Iowa. La chiusa sull’aperitivo no, credo sia una battuta dello speaker per richiamare il pubblico al qui e ora ricordandogli che sì, in effetti è l’ora dell’aperitivo. «E a voi, com’è andata la giornata? Ditecelo al…» continua il tizio propinando a me e a tutti gli altri ascoltatori la più classica delle call to action. Mi verrebbe da inviare un vocale e dirglielo, a ’sto tizio, com’è andata la mia giornata. Così, tanto per metterlo in imbarazzo con il compiacimento vagamente sadico di quando un conoscente ti chiede come stai e tu gli rispondi che ti è appena morto un parente. Gli direi ascolta, tizio: è andata che ho appena perso il lavoro e sono ferma da mezz’ora nel parcheggio di un autogrill perché non ho nessuna voglia di tornare a casa. E ti dirò, essere stata licenziata non è neanche la cosa peggiore che mi sia successa oggi. Pensa che, sempre oggi, ho compiuto trentacinque anni: il punto di svolta di una decade, l’inizio del declino verso i quaranta, il momento che ti situa ufficialmente dalla parte sbagliata della trentina. Invece spengo la radio e apro Spotify: Cortigiani, vil razza dannata è il brano che lo shuffle ha scelto per me, inviandomi in soccorso un Rigoletto furibondo che mi salva dalle ciance dello speaker.
«Ma mica solo i cortigiani, guarda» borbotto accendendomi una sigaretta e sistemandomi più comoda sul sedile. Tanto a casa non mi aspetta nessuno, e ho voglia di pensare.
Stamattina mi sono fermata davanti allo specchio più a lungo del dovuto: guardiamola un po’, mi sono detta, questa faccia da trentacinquenne. Lo specchio mi ha restituito la solita immagine: capelli biondi ma occhi castani (non azzurri, no), lineamenti fin troppo regolari per non dire anonimi, qualche “primo segno d’espressione”, come da eufemistica definizione dei bugiardini delle creme di bellezza. In effetti eccoli lì, non manca niente: ai lati della bocca le parentesi tonde tra cui ho chiuso risate e sorrisi, attorno agli occhi la raggiera degli sguardi strizzati alla luce del sole o dell’iPhone, tra le sopracciglia un accenno del solco verticale che negli anni a venire mi trasformerà nel ritratto di mia madre imbronciata.
Ma non era quello con lo specchio, il confronto che temevo di più. A spaventarmi, appunto, era il bilancio tra le cose fatte e quelle che avrei voluto fare. Perché la promessa di un destino luminoso, se c’è, a trentacinque anni dovrebbe essere già in buona parte mantenuta. Alessandro Magno, per dire, è morto che di anni ne aveva trentatré, e prima di andarsene aveva conquistato tutto il mondo conosciuto per la sua epoca. E poi c’è Dante, che con il primo verso della Commedia ci dice che la mezz’età (il mezzo del cammin di nostra vita, appunto) inizia esattamente a trentacinque anni. Ora, è vero che la vita media si è allungata, è vero che l’età anagrafica non coincide con quella sociale, è vero che a trentacinque anni una può ancora permettersi un certo numero di frivolezze come farsi i capelli blu, scegliere i filtri per le stories di Instagram, guardare pancioni e carrozzine come si guarda un incidente stradale. Ma questa storia della giovinezza sempiterna, a me, sa tanto di fregatura: come dire che casa, lavoro e stabilità sono cose da vecchi, e se noi non possiamo permettercele è solo perché siamo giovani, ancora giovani, eternamente giovani. Ecco, questa andate a raccontarla a un’altra.
 
[da Caffè Voltaire di Laura Campiglio, Mondadori, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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