La relazione tra elementi di biografia e esiti di scrittura è tema controverso, destinato a non chiudersi mai definitivamente. La positivistica scuola storica, non limitatamente ottocentesca come si usa dire, intendeva spiegare le pagine di un romanzo o i versi di una poesia accumulando anche i più minuti dettagli del vissuto di un autore. E spesso faceva dipendere meccanicamente dalle notizie reperite riflessioni o commenti fina lizzati a svelare ciò che stava dietro alla lettera di un testo, mirando più a evidenziare quello che si nascondeva al di là di questo o quel nome che non il senso della costruzione fantastica o verosimile di figure e paesaggi. Quell'indirizzo iperfilologico, erudito e cronistico descrittivo nell'accezione di
Lukács - non è certo da dimenticare, ma è opinione acquisita ritenerlo insufficiente, se non sviante, per comprendere ciò che si legge, per un'ermeneutica all'altezza delle molteplici domande che una prova narrativa o un componimento pongono. Altro discorso è da farsi per la ricerca di fonti che interferiscano in un romanzo o in un sonetto, in un poema. Pure in questi casi la prudenza è d'obbligo, anche se la ricerca fattuale dei fatti è imprescindibile. In breve: il testo da interpretare è un impasto di trasfiguranti e calcolate menzogne, di gratuite licenze e di dati accertabili. Ogni autore agisce a suo piacimento e l'impegno dell'esegeta dovrà guardarsi dall'applicare uniformemente un metodo prefissato o parziale in termini rigidi.
Francesco Ricci, docente seguito con trasporto dagli allievi, ama dar rilievo ai fili esistenziali di cui è intessuta l'esperienza letteraria e muove dall'esame di un'amicizia, dai riflessi di un incontro per accompagnarci in un viaggio di scoperta. Passioni e desideri sono il terreno di coltura dal qua le germinano narrazioni che prefiggono di comunicare provata emotività, legami durevoli, rispecchiamenti o ostilità. «Eppure, nonostante le diverse forme - avverte
Francesco in premessa - che l'amicizia poté assumere per
Debenedetti,
Saba, la
Ginzburg, la
Morante,
Moravia,
Pasolini,
Pavese, la
Pivano, ciò che balza evidente agli occhi è l'assoluta centralità che questo sentimento ebbe nelle loro esistenze». Cosi i capitoli del suo libro (“Storie d'amicizia e di scrittura”, Primamedia editore, pp. 142, Siena 2020), didatticamente chiaro e onestamente puntuale, si snodano uno dopo l'altro raccontando le vicende di coppie - di accoppiamenti - che, per affinità di interessi o reciprocità di attrazione, danno luogo a dialoghi, delusioni, sconfitte, successi. Quattro i casi indagati e non per gusto di gossip o per esibizione di sensazionalistici inediti. Anzi
Francesco si tiene sulla soglia, non va oltre, lascia all'immaginazione quanto non sarebbe corretto precisare con arbitraria sicumera.
Giacomo Debenedetti in
Umberto Saba tesse l'elogio dell'umile medietà: «col materiale di cui altri uomini sono costretti a fare la loro prosa quotidiana riuscì a fare poesia». Ed è una sentenza critica non meno che un'affettuosa epigrafe. Registro ben diverso è quello che attestano
Natalia Ginzburg e
Elsa Morante. Quando uscì “La Storia”, nel giugno 1974, l'accoglienza fu assai discorde. In molti rimproverarono a
Elsa di tornare ad un datato neorealismo e di concedere troppo ad una visione patetica. Per
Natalia al contrario l'opera più discussa di
Elsa restò il romanzo più bello dell'intero Novecento e «averla conosciuta uno dei beni della sua vita».
Lo scambio tra
Moravia e
Pasolini fu continuo e sconfinata l'ammirazione dell'autore degli “Indifferenti”. Si sa che
Moravia procedeva per giudizi drastici, per periodizzazioni nette. Rammento una cena con lui a Strasburgo, dove di tanto in tanto veniva indossando senza entusiasmo le vesti di parlamentare europeo: «La prima metà del Novecento - chiuse lapidario una lunga discussione - nella poesia italiana è dominata da
Montale, la seconda metà del secolo da
Pasolini». Nell'orazione funebre che pronunciò a Campo de' Fiori per l'amico assassinato non ebbe esitazioni e con voce rauca gridò disperato: «Abbiamo perso questo poeta straordinario che ha creato una cosa nuova e straordinaria che nessuno aveva fatto prima di lui. La poesia civile in Italia da
Foscolo a
Carducci poi a
D'Annunzio è sempre stata una poesia di destra». A dire il vero, l'affermazione non era affatto convincente, ma ciò che risaltava era il vigore d'un sentimento che storicizzava senza sottigliezze dando libero sfogo ad un'idea, ad una percezione, ad una scomoda presenza: portato della salda amicizia più che di una riflessione critica.
Tra
Cesare Pavese e
Fernanda Pivano emerge a soprassalti un amore che non trova mai un pacificante approdo. Le radici dello scacco di
Pavese hanno prodotto una bibliografia vasta e pettegola.
Ricci pedina il suo eroe e elenca dinieghi e incomprensioni, mai però affondando il coltello nella piaga. Eppure la chiave del naufragio non è enigmatica. Agli incomprimibili impulsi erotici si contrapponeva in
Pavese una rattristata consapevolezza di impotenza: «Adesso, a modo mio, sono entrato nel gorgo: contemplo la mia impotenza, me la sento nelle ossa, e mi sono impegnato nella responsabilità politica, che mi schiaccia. La risposta è una sola - suicidio» (27 maggio 1950). E con il meditato suicidio al torinese Albergo Roma, stanza 43, in una notte dell'agosto 1950, siglò un irrequieto e ansioso peregrinare. Nel frontespizio del volume che a
Pavese fu più caro, “Dialoghi con Leucò”, ed è il meno letto e il meno apprezzato, egli vergò un'amara raccomandazione. «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Si direbbe ascoltata ed è riscontrabile nel metodo di biografare fatto proprio da chi ha voluto ricostruire atmosfere e sensibilità senza inoltrarsi in spregiudicate diagnosi psicanalitiche o in complessi quadri ideologici.
Per capire uno stile, per decriptare la verità della scrittura non vale, forse, affaticarsi nell'assegnare collocazioni canoniche o nel disegnare sofisticati diagrammi. In primo piano è l'invito (discutibile) che scaturisce dalle lezioni di questo piccolo libro di curiosi sondaggi - sta un flusso di occasioni, di strenue lotte personali e di ardite speranze. Viene in mente un brano del diario che
Adriano Sofri tenne durante le periodiche visite che faceva a
Elsa Morante nei suoi ultimi tempi. Ha il timbro di una disarmata confessione finale: «Penso - trascrive
Adriano - che Dio è la natura, e che alla natura appartiene l'uomo che ha espresso più mirabilmente questa divinità che è di tutto, Cristo»>. Eco di
Baruch Spinoza o effetto delle sofferenze attraversate?
Recensione pubblicata sull'ultimo numero di "Cultura Commestibile". (
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