11/02/2013
E’ da qualche mese che le pagine culturali dei giornali riferiscono, a più riprese, di una querelle letteraria legata alla scoperta di un presunto testo poetico di Dante Alighieri, da sempre attribuito al rimatore senese Bindo Bonichi. Tutto ebbe inizio nel 1987, quando lo studioso americano Louis Marcello La Favia, sfogliando un antico manoscritto della British Library (il Codex Harley 3459), dopo aver letto un’intera trascrizione delle tre cantiche della “Commedia” dantesca, trovò, nelle ultime due pagine, ottanta versi che il copista aveva titolato “Chanzona ddante”. La Favia pubblicizzerà lo scoop nel 1989 con una conferenza tenuta a Chicago e comincerà a mettere per iscritto le sue congetture che miravano a dimostrare la paternità dantesca di quei versi. Lo studioso morirà in Italia nel 2008. La sua ricerca, rimasta incompleta e in forma di appunti, è stata recentemente pubblicata a cura del fratello, Giuseppe Angelo La Favia (“Chanzona Ddante”, Longo Editore, 2012). In verità la comunità scientifica non hai mai considerato più di tanto questa ipotetica scoperta. Proprio nel Domenicale del “Sole 24 Ore” di alcune settimane fa, Fabio Zinelli, filologo presso l’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, faceva notare che le poesie attribuite a Dante nei manoscritti sono numerose, poiché tra i copisti, dinanzi a un testo che li giungeva anonimo, era piuttosto diffuso il vezzo di attribuirlo a nomi di sicuro appeal, quali Dante e Petrarca. Sempre Zinelli ricordava che già prima di La Favia, nel 1980, la studiosa tedesca Marcella Roddewig aveva insinuato il sospetto che quelle stesse rime di Bindo Bonichi potessero essere dell’Alighieri.
Bindo Bonichi chi? - Quanto a Bindo Bonichi, ciò che conosciamo su di lui è che nacque intorno al 1260, figlio di Bonico Bonichi. Il suo nome, insieme a quello di tale Vanni (forse un fratello) appare nel Libro di Biccherna dell’anno 1285, dove si registra un pagamento effettuato dal Comune di Siena a Vanni e a Bindo Bonichi di San Pietro a Uvile di Sotto. Ficcando ancora il naso negli affari della famiglia, apprendiamo che il 27 agosto 1299, Bindo compra dal notaio Gualterotto del fu Mamolo un podere “in contrata Sancte Regine prope Senas”. Mentre il 3 settembre successivo formalizza con regolare contratto una dote di quattrocento libbre senesi a favore di Giovanna di Arrigo di Bartolomeo Saracini, sua “futura uxor”. Non è dato sapere se il matrimonio giunse in porto e se Bindo, da quella o altra unione, abbia avuto figli. Un probabile figliolo potrebbe essere stato l’Antonio di Bindo Bonichi, eletto nel 1350 tra gli “Ufiziali a chiamare i sindaci delle contrade di Siena”. Il Nostro risulta persona molto attiva nella vita della città. Il 15 marzo del 1305 è nominato ufficiale del Comune “ad mittendum nuntia et licteras... pro habendis novis”. Due anni dopo è consigliere della Campana e console della Mercanzia. Quest’ultimo incarico lascia intendere che esercitasse il mestiere di mercante. Nell’ottobre del 1309 lo troviamo tra i “Nove Governatori e difenditori del comune et del popolo di Siena”, prestigiosa carica rinnovatagli per diversi anni.Poiché a quei tempi la tracciabilità del denaro era difficile da eludere, è documentato che il 22 maggio 1321 il Bonichi riceve un pagamento di 20 libbre per aver fatto costruire (tra le sue molteplici attività c’era probabilmente anche quella edilizia) un pozzo in contrada San Pellegrino. Nel settembre dell’anno successivo, come operaio dell’Opera di S. Maria Maggiore, acquista una casa posta “prope sive iuxta et retro dictam ecclesiam maiorem”. Ci è noto, inoltre, che Bindo era uomo religioso e dedito ad opere pie, così che, nel 1327, diviene frate oblato della casa di S. Maria della Misericordia, una confraternita istituita per la protezione degli infermi e degli orfani. Sarà lui a compilarne gli statuti, insieme ad altri quattro confratelli. Muore a Siena il 1 o 2 gennaio del 1338.
Il poeta che era in lui - Ma, se pur nel ristretto àmbito degli specialisti, la notorietà del Bonichi oltre le mura senesi, è dovuta alla sua produzione poetica: venti canzoni e una trentina di sonetti ad argomento cosiddetto morale-gnomico, tipico di una certa produzione poetica trecentesca, soprattutto toscana. Strofe non certo di esaltante poesia, tanto da far dire alla critica sette-ottocentesca (vedasi, ad esempio, Giovan Mario Crescimbeni) che sono rime “sparse di sodi e gravi sentimenti e di ottima etica”, però scritte “con poca cultura e con abbiette voci”. Ovvero, l’autore era “miglior filosofo e moralista che poeta”. I risultati più apprezzabili, il rimatore senese pare raggiungerli, comunque, in certi sonetti dove l’intento predicatorio risulta attenuato da un linguaggio sciolto e maggiormente vicino alla lingua parlata. Vedasi, ad esempio, i versi: “El calzolai’ fa ‘l suo figliuol barbiere”; o come quando, intendendo additare la grettezza della classe mercantile, scrive: “La turba stolta la virtù disprezza, / e credon nei fiorini aver riposo: / cercan l’amaro e fuggon la dolcezza”.
Canzone controversa - Dunque l’onesto (e modesto) rimare del Bonichi ha pure qualche guizzo di bella poesia che, però – almeno secondo il giudizio di alcuni – appena venga apprezzata come tale, porta subito a far dire che non ne sia lui l’autore. E’ quanto, giustappunto, è accaduto con la Canzone (nelle raccolte a stampa delle opere bonichiane è la “Canzone nona”) oggetto del casus letterario sollevato da Louis Marcello La Favia, il quale sostiene che quegli ottanta versi mostrerebbero una qualità che né Bonichi, né altri rimatori coevi a Dante sarebbero stati in grado di esprimere. La canzone inizia così: “Guai a chi nel tormento / sua non può spander voce / et quando foco il coce / gli convien d’allegrezza far sembianti”. Lamenta la situazione di chi, soffrendo, non può manifestare il proprio dolore e deve addirittura fingere allegria. E prosegue con uno sfogo contro quanti giudicano solo dalle apparenze e condannano chi è vittima di colpe altrui. Dichiarando infine: “Saggio non so’, ma quel ch’altrui promisi / sempre observai, e di ciò non ho lodo / vorrei posare e volo: / Dio tratti altrui per quel che me tratta legge”. Parole di sconforto, ma anche di rabbia, che – è la tesi di La Favia – potrebbero essere state scritte da Dante nel 1304, all’epoca del fallito tentativo (sostenuto anche dall’Alighieri) dei Guelfi Bianchi e dei Ghibellini di rientrare con le armi a Firenze. Un brutto frangente per il sommo poeta, condannato a morte in contumacia, accusato di viltà anche dagli altri fuoriusciti fiorentini, destinato al perenne esilio.
Nella maestosa penombra - Come già detto, l’esegesi e le conclusioni dello studioso americano, fondate, a suo dire, su criteri filologico-stilistici e storici, non hanno però raccolto grandi considerazioni dal mondo accademico. Piace, perciò, continuare a credere che la controversa Canzone sia nata per mano di Bindo Bonichi, magari scritta in un momento in cui anche lui aveva le paturnie a causa di beghe personali e/o cittadine. Peraltro è dalle situazioni più cupe e meste che, sovente, la poesia ricava i più felici esiti. Non a caso Bindo medesimo ci confida in un sonetto: “Quanto è vago il pensier, dolce il tormento, / e grato il rimembrar, s’io parlo o scrivo!”. Oggi, nella maestosa penombra della chiesa di San Domenico, dove il poeta senese fu sepolto il 3 gennaio del 1338, ogni brusio giunge effimero e fuori luogo: figuriamoci, poi, quello di una disputa letteraria che, probabilmente, non ha ragione d’essere.
Articolo pubblicato su Il Corriere di Siena del 09/02/2013
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Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...
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